Caterina Chinnici aveva 27 anni quando suo padre, il consigliere istruttore del tribunale di Palermo Rocco Chinnici, veniva dilaniato da una carica di tritolo mentre usciva dalla sua abitazione di via Pipitone Federico. Era il 29 luglio 1983. Assieme a lui morivano il maresciallo Mario Trapassi, l’ appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere del palazzo Stefano Li Sacchi. Chinnici era stato l’ ideatore del pool antimafia – un pool al quale, successivamente, Antonino Caponnetto avrebbe ridato forma e spessore – ed era il magistrato che, avendo intuito la valenza culturale della mafia, andava nelle scuole siciliane per parlare di legalità.
«Ero sposata da pochi mesi e facevo il pretore a Caltanissetta – dice Caterina – Ricordo quella mattina: telefonarono dalla questura, rispose mio marito, dalla sua reazione capii che era accaduta una cosa terribile». Da pochi anni i corleonesi avevano soppiantato l’ ala moderata di Cosa nostra. La mafia aveva alzato il tiro su magistrati, uomini politici, giornalisti, rappresentanti delle forze dell’ ordine: Gaetano Costa, Cesare Terranova, Mario Francese, Emanuele Basile, Mario D’ Aleo, Boris Giuliano, e poi Piersanti Mattarella, Michele Reina, Carlo Alberto Dalla Chiesa (tanto per citarne alcuni). Con l’ assassinio di Rocco Chinnici veniva inaugurata la strategia stragista, una strategia che si sarebbe ripetuta dieci anni dopo con gli eccidi di Capaci e di via D’ Amelio.
«Mio padre sapeva di correre dei rischi, aveva ricevuto minacce, quindi probabilmente era consapevole che qualcosa sarebbe potuta accadere. Nessuno di noi familiari aveva percepito questo stato d’ animo, lui si sforzava di dare serenità a tutti». Come in un film, scorrono i fotogrammi di quei giorni, descritti da Caterina con serenità ma con un velo di tristezza, specie quando si parla di solitudine: «La solitudine è un vuoto che improvvisamente ti si forma attorno. Sentire questo vuoto è terribile, soprattutto quando si ha bisogno del conforto e della solidarietà degli altri. Purtroppo a quel tempo i familiari di una vittima di mafia si ritrovavano in una condizione di grande solitudine. Oggi le cose sono profondamente cambiate: tragedie come quella di Falcone e di Borsellino hanno scosso le coscienze, hanno fatto comprendere che la solidarietà degli altri è importante per capire che quella morte non è stata vana».
Nata a Palermo, dove si è laureata a 21 anni, la figlia di Rocco Chinnici racconta tutto questo con il sorriso sulle labbra. Alle pareti del suo ufficio sono appese le foto del papà e del giudice-ragazzino Rosario Livatino, la preghiera del carabiniere, le immagini che la ritraggono con Giovanni Paolo II e con l’ ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, quindi i calendari dell’ Arma, della Polizia di Stato, della Guardia di finanza.
E’ una donna semplice e spontanea, lo dimostra alla fine di questa intervista quando, a registratore spento, dice: «Adesso le faccio io una domanda: che idea si è fatta di me?». L’ idea di una donna che della semplicità fa la propria forza per affermare la legalità.
Dottoressa Chinnici, non viene assalita dallo sconforto quando vede che una parte della società siciliana è ancora così arretrata? «Una delle prerogative che forse ho ereditato da mio padre è la determinazione. Determinazione significa rendersi conto dei problemi, delle difficoltà, avere dei momenti di sconforto ma superarli immediatamente rimboccandosi le maniche. Certo, è scoraggiante andare in alcune scuole e trovarsi davanti un muro di indifferenza, non tanto da parte dei ragazzini ma qualche volta da parte degli insegnanti. Però mi capita spesso di andare in altre scuole dove trovo un grande impegno per la diffusione della legalità. Sono convinta che le cose cambieranno, l’ impegno di tanti porterà a un risultato, ci vorrà del tempo ma questo non deve scoraggiarci. Ritengo che mio padre mi abbia lasciato una eredità fatta di valori come la giustizia, la libertà, la democrazia, la correttezza, l’ onestà, l’ umanità. Io cerco di lavorare con lo stesso impegno, con le stesse prospettive, con gli stessi ideali, anche se credo che in questo momento questi valori siano messi seriamente in discussione».
I ricordi legati a suo padre: «Dico sempre che mi sento una persona privilegiata perché ho avuto due genitori meravigliosi: mio padre aveva tanta umanità ed era un uomo con un carattere molto forte, un punto di riferimento per la famiglia; mia madre è una donna dolcissima che ha saputo supportare le scelte di mio padre. La mia infanzia è trascorsa a Partanna (dove mio padre faceva il pretore) ed è stata molto bella, erano tempi davvero sereni. Ricordo l’ affetto di tutto il paese nei confronti di mio padre, che ancora oggi considerano “il pretore di Partanna”. Gli anziani del paese trasmettono ai più giovani questo ricordo. Mio padre era un uomo molto rigoroso, non era il padre che impone o che vieta. Imponeva e vietava quando riteneva di doverlo fare spiegandone sempre le ragioni. Il ricordo che affiora spesso è legato al momento in cui ho superato gli scritti del concorso in magistratura. Lui ci teneva tanto, non mi ha condizionato, né indirizzato in questa scelta, ma sapevo che ci teneva. Ricordo quando gli comunicai per telefono che avevo superato gli scritti, fece un urlo di gioia».
«Il mio sogno? Andare a fare il magistrato a Palermo, la città che mi ha dato il dolore più grande della vita, ma che, malgrado tutto, amo profondamente».
Luciano Mirone
(Tratto da la Repubblica)
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