È un anno speciale per Bronte. Anno di raccolta. Anno di raccolta del pistacchio. Tutti in paese sono mobilitati per consumare un rito che si perde nella notte dei tempi. Non solo i coltivatori, ma anche i loro familiari. Per almeno quindici giorni, diverse case del paese vengono chiuse e contemporaneamente vengono aperte quelle di campagna, dove si è impegnati nella raccolta dell’ “oro verde” che per Bronte rappresenta la principale fonte di guadagno.
Centinaia di coltivatori, braccianti, semplici cittadini che svolgono altri mestieri ma che possiedono un appezzamento di terreno dove lavorano il pistacchio, grazie a questa mitica pianta importata dai romani, nel corso degli anni sono riusciti a migliorare la loro condizione sociale e a raggiungere un tenore di vita davvero ragguardevole. Gli uomini raccolgono, le donne aiutano a disporre al sole il frutto ancora ricoperto dalla buccia. E poi, alla fine della giornata, in molte case, si fa festa. Già, perché a Bronte la parola “pistacchio” è da associare alla parola “festa” per i motivi appena accennati.
È solo negli anni dispari che il frutto viene staccato dalla pianta. Lo vuole una tradizione che si tramanda di padre in figlio, e lo vogliono i contadini locali che approvano le leggi che furono tramandate dai loro avi, perché “il sapore viene esaltato solo se la raccolta avviene ad anni alterni”. “Quando si infrange la tradizione”, dicono all’unisono, “si raccoglie un frutto quasi insapore, praticamente scialbo, assolutamente non paragonabile al pistacchio raccolto negli anni dispari”. E il motivo c’è. È da ricercare nell’asprezza dei terreni lavici che, se da un lato costituiscono l’habitat naturale per lo sviluppo di questo tipo di pianta (assieme ad un microclima ideale), dall’altro, essendo arido, non dà la possibilità all’arbusto di fruttificare ogni anno allo stesso modo. E così la tradizione continua da millenni e continuerà per sempre.
Luciano Mirone
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