Nel corrente periodo di competizione elettorale, in Sicilia, e in vista delle future elezioni politiche del 2018, è utile, a mio avviso, riproporre la lezione di Giuseppe Lazzati (1909-1986), un intellettuale cattolico laico, che, nell’arco del ‘900, si è distinto per il suo impegno coerente e limpido, per la forza morale dei suoi atti in politica e nella cultura. Riconosciuto dal card. Martini “Servo di Dio” e da papa Francesco “Venerabile”, Lazzati ha lasciato una preziosa testimonianza di ciò che dovrebbe essere un politico, in particolare colui che si impegna in politica da cristiano. Per coglierne meglio il messaggio contenuto nel libro-testamento dal titolo La città dell’uomo. Costruire, da cristiani, la città dell’uomo a misura d’uomo, occorre ripercorrere brevemente alcuni momenti salienti della sua biografia.
Quarto di otto figli di una famiglia povera, Lazzati lavora per mantenersi agli studi e si laurea prestissimo in lettere classiche, nei primi anni di vita dell’Università Cattolica di Milano, di cui nel 1939 diventa docente. Il rapporto con il fondatore dell’Università, padre Gemelli, non è roseo, per cui Lazzati sceglie di costituire un’associazione di consacrati laici, Milites Christi, che gli consente di elaborare liberamente la visione di una cristianità laica, promotrice di una cultura politica democratica, fondato sulla persona e sul servizio al bene collettivo.
La sua coscienza missionaria laica viene segnata dalla partecipazione alla Seconda Guerra Mondiale, in qualità di tenente degli alpini e soprattutto dalla prigionia in vari campi di concentramento nazisti, dove viene internato per essersi rifiutato di prestare giuramento alla Repubblica Sociale Italiana. Sopravvissuto ai lagër nazisti, tornato in Italia, profonde il suo impegno civile insieme agli amici Giuseppe Dossetti e Giorgio La Pira nella ricostruzione del Paese, assumendo il compito di padre costituente, poi di deputato della DC nella I Legislatura (1948-1953).
Nel 1968, viene eletto rettore dell’Università Cattolica, carica che ricopre fino al 1983. Su questo periodo va fatta una precisazione, perché le biografie di Lazzati non la offrono: la repressione della rivolta studentesca che poi portò all’occupazione dell’Università da parte di un gruppo di studenti non avvenne durante il rettorato di Lazzati, ma durante quello del suo predecessore Franceschini. Nei due libri Formidabili quegli anni e Lettera a mio figlio sul Sessantotto, Mario Capanna, allora studente leader della contestazione in Cattolica, non fa minimamente cenno a Lazzati, mentre sottolinea le pesanti responsabilità che ebbe il rettore Franceschini nella conduzione dei rapporti con gli studenti. La contestazione, scrive Capanna, avvenne in seguito ad un innalzamento consistente della retta di iscrizione all’Università: gli studenti chiesero invano di poter leggere il bilancio dell’Ente e di avere giustificazioni su tale aumento. Franceschini inizialmente adottò la strategia del dialogo (la prima assemblea si svolse nel 27 ottobre del 1967) poi però non riuscì a fronteggiare la situazione e mise in atto metodi intimidatori compiendo una serie di errori che esacerbarono gli animi degli studenti, spronandoli a una vera e propria ‘guerra civile’ che culminò nei fatti del 22 e del 23 marzo del 1968 (dopo tre occupazioni) quando Franceschini consentì a un gruppo di fascisti di picchiare gli occupanti e permise alla polizia di sgombrare con la forza le aule universitarie. Lo scontro si fece più violento due giorni dopo, quando un corteo di ventimila studenti per tre ore affrontò una squadra di poliziotti in assetto antisommossa all’ingresso dell’Università.
E’ in seguito a questi fatti che Franceschini viene invitato a lasciare il posto di rettore al più mite Lazzati, chiamato a questo punto a ricostruire una pace violata, all’insegna di una visione nuova dell’Università. Lo storico del cristianesimo Alberto Melloni, in un articolo apparso sul “Corriere” (marzo 2005) denuncia le questioni affrontate da Lazzati nel clima di quegli anni: in Cattolica, Lazzati deve da un lato moderare le “effervescenze” del Sessantotto e sanare le lacerazioni dovute alle espulsioni di studenti e docenti, dall’altro convincere la Santa Sede a non chiudere l’Università, perché ritenuta “covo di comunisti”; da un lato deve riorganizzare l’Ateneo in chiave moderna, dall’altro deve fronteggiare il potere sempre crescente del movimento guidato da Giussani “Comunione e Liberazione”, di cui Lazzati intuisce la deriva integralista. Per lui, cristiano formato in Azione Cattolica, certe prese di posizione fondamentaliste intrise di soprannaturalismo della politica, sono assai pericolose. Durante il referendum sul divorzio, Lazzati fa un richiamo al primato della libera autodeterminazione del cristiano in quanto dotato di coscienza morale e CL reagisce accusandolo inopportunamente di neoprotestantesimo.
Ma Lazzati, non si presta agli attacchi, sa volare alto. “Egli impersona, scrive Melloni, una figura di cristiano ambrosiano d’una purezza intellettuale e personale tale da disarmare chi avesse sognato di ricattarlo in nome della ragion di Stato o della ragion cattolica”. In virtù della sua ponderatezza e del suo rigore, Lazzati riesce a salvare l’Università che lo aveva formato e di cui era formatore, a moderare i toni violenti e le misure di frontale contrapposizione tra “ribelli” e Ciellini, difendendo in Vaticano l’autonomia del suo ruolo esercitato prima di tutto con il senso di responsabilità emanato dal suo ruolo di educatore.
Negli ultimi anni, Lazzati fonda l’associazione “Città dell’uomo”, in cui rinnova la necessità di un’idea alta della politica in una fase di grave crisi della situazione italiana. Al suo funerale, è il fraterno amico e compagno di impegno civile, Giuseppe Dossetti, a trovare le parole giuste per descriverne la personalità: “Lazzati è sempre stato, ma in particolare negli ultimi anni della sua vita, un vigilante, una scolta, una sentinella: che anche nel buio della notte, quando sulla sua anima appassionata di grande amore per la comunità credente poteva calare l’angoscia, ne scrutava con speranza indefettibile la navigazione nel mare buio e livido della società”.
Questi tratti biografici dell’esperienza di Lazzati sono maturati nella stesura del manifesto politico la “Città dell’uomo” da cui si ricava il meglio del suo pensiero politico. Partendo dall’affermazione della Lettera a Diogneto (un testo cristiano in greco antico di autore anonimo), secondo la quale i cristiani ‘sono nel mondo, ma non appartengono ad esso’, Lazzati propone una concezione attualissima della politica, che indica tre obbiettivi che il cristiano deve perseguire:
La visione evangelica non accetta compromessi morali, ha una portata radicale che per un cristiano non offre scappatoie e autoassoluzioni. Il cristiano nella “città dell’uomo” deve essere lievito, offrendo un servizio di umile testimonianza di vita, ardente d’amore per gli altri. Il cristiano autentico deve saper “distinguere per unire”, rispettando le diverse identità. Il cristiano deve considerare il proprio impegno un modello di virtù morale a cui bisogna guardare come prova di concreta attuazione del messaggio di Cristo nella città dell’uomo: impegno politico che si esprime non solo nelle candidature ma anche nella scelta del candidato da votare. La domanda che un buon cristiano deve porsi in entrambi i casi è sulla corrispondenza della scelta (del partito, dello schieramento, del singolo candidato, della lista a cui aderire) ai valori evangelici, improntati su onestà, carità, verità, rispetto della persona.
La cultura è il punto centrale di ogni azione politica. Che cosa intende Lazzati per cultura è presto detto: non l’accademismo, ma la coscienza critica che sa sempre sfidare l’ovvio e il consueto, in vista di una ricerca della verità radicale ed esigente, priva di ossequioso rispetto per le appartenenze e le opportunità di schieramento o determinate dalla necessità di far sopravvivere un’istituzione sottomettendo ad essa il valore della vita e della giustizia.
La perdita di status della politica non deve essere attribuita ai cittadini, ma alla politica stessa che deve smarcarsi dal ruolo di ancella dei poteri forti. Contro questa sudditanza della politica che esercita il mero ruolo di soluzione dei conflitti sociali, per far sì che i poveri accettino la distribuzione esistente del potere e della ricchezza, Lazzati propone una politica promotrice dei diritti previsti nella Costituzione.L’idea lazzatiana di politica mi sembra oggi del tutto dimenticata dai cattolici.
Locandina convegno Lazzati Catania
Proprio mentre scrivo, a Catania, nella sede dell’Arcivescovado, si sta svolgendo un convegno organizzato dall’Università Cattolica sul tema dei giovani e della formazione integrale della persona per lo sviluppo dell’Italia meridionale. Relatori sono politici locali e ministri (apri link) che in questi anni hanno varato leggi che Lazzati avrebbe verosimilmente giudicato antitetiche alla costruzione della città dell’uomo: basti pensare alla legge sul falso in bilancio, alle leggi anti-immigrazione, alle leggi che hanno favorito i potentati economici e le banche. Amministratori della nostra isola che si sono mostrati incapaci di avviare una politica seria per impedire le infiltrazioni mafiose e il malcostume clientelare dello scambio di voti, che non hanno fatto nulla per bloccare i traffici economici delle mafie, la disoccupazione giovanile, la crescita della povertà educativa al Sud, la dispersione scolastica. L’Università di cui fu rettore Lazzati, nel 2017, ritiene che i migliori esperti su un tema così importante possano ancora essere alti prelati ed esponenti della vecchia politica, dando prova di una chiusura al tradizionalismo che offre l’impressione di un impacciato tentativo di promozione elettorale di volti noti, direttamente o indirettamente responsabili della perenne crisi della nostra regione.
L’Università Cattolica è stata anche la mia università, quella in cui mi sono laureata nel 1992, l’anno delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Realizzando questo convegno, a distanza di venticinque anni da quelle stragi, stragi ancora senza verità sui mandanti, mi sarebbe piaciuto che la mia Università cogliesse l’occasione per trattare temi di rilievo nella lotta alla mafia, come il ddl che estenderebbe la Rognoni-La Torre, applicandola anche ai corrotti. Sarebbe stato auspicabile una proposta sul codice etico da imporre nella formazione delle liste per impedire alla mafia di presentare la candidatura di propri uomini. Ma ha preferito esibire il solito defilé di nomi e di carenze. Forse perché la costruzione di una città dell’uomo al servizio dell’uomo sognata da Lazzati, è altrove, in una educazione ispirata ai valori cristiani che non organizza convegni pre-elettorali, ma opera per il recupero educativo dei giovani nelle periferie desolate del nostro Sud, per liberarli dalla sudditanza del bisogno e farne liberi cittadini.
Alfia Milazzo
magnifico,vortei poter dialogAre su questo a fondo..magari infuturo?Incarna le mie posizioni ideali,o almeno quelle che cercp di fat vivere in me..Grazie!
Articolo molto bello,che fa un’analisi amara e disincantata di quanto le gerarchie cattoliche (con buona pace di papà Francesco), siano sempre meno ispirate da spirito cristiano: i Lazzati, i Dossetti, i La Pira, non hanno più cittadinanza nel dibattito politico culturale del nostro paese, potremmo dire, hanno vinto i Ciellini.Per dirla con Kant, all’imperativo categorico, si preferisce l’imperativo ipotetico: ovvero al politico ”morale”, il politico ”moralista”, e i risultati e le conseguenze sono sotto i nostri occhi.