C’è stato un tempo, quando ero ragazzino, in cui ho sognato di fare il giornalista sportivo e di andare negli stadi immensi delle metropoli per raccontare le gesta della Juve, del Milan, dell’Inter, della Roma, del Real Madrid, del Brasile, i retroscena delle partite, le tattiche, gli schemi alla lavagna, i segreti degli spogliatoi.
Era il periodo di un calcio romantico e puro, popolato da allenatori come Nereo Rocco, Manlio Scopigno, Helenio Herrera, Bearzot, Trapattoni, da calciatori come Riva, Rivera, Mazzola, Domenghini, Albertosi, Zoff, Tardelli, Bettega, da giornalisti come Brera, Ciotti, Ameri, Tosatti e tanti altri. E poi quelle partite indimenticabili, Italia-Germania-quattro-a-tre, e poi Pelè e poi la prima, grande delusione della mia vita: l’esclusione della Nazionale al mondiali in Germania del Settantaquattro. Ma anche la prodigiosa scoperta del “calcio totale” dell’Olanda di Cruijff che evidenziò i limiti di un’Italia lenta e catenacciara. E poi la ricostruzione con Bernardini e Bearzot, il quarto posto ad Argentina ’78 e il primo in Spagna nell’82.
A vent’anni cominciai a seguire il campionato di serie D per il Giornale di Sicilia: facevo la cronaca, le interviste, le pagelle, i ritiri, i tabellini, il prepartita, il pezzo del lunedì. Durò un paio d’anni, poi in Sicilia accaddero dei fatti così terribili da indurmi a pensare che nella vita ci sono delle cose infinitamente più importanti. E mi impegnai per altre cause.
Questo coincise con la finale di Coppa dei campioni dell’Ottantacinque allo stadio Heysel di Bruxelles fra la Juventus e il Liverpool, quando i calciatori italiani, fine partita, ebbero il coraggio di festeggiare la vittoria malgrado i trentanove morti e i seicento in ospedale per gli attacchi degli hooligans.
Fu un punto di non ritorno, mi accorgevo che il calcio era diventato cinico. Il rigetto aumentò quando scoppiò il calcio-scommesse e quando trapelò la notizia del doping anche nel mondo del pallone, con le prove nascoste per tacitare quest’altro incredibile scandalo.
La cosa più stupefacente è che la gente – pur essendo al corrente di tutto – vive ancora questa eterna illusione, come alle elezioni in Sicilia, quando il centrodestra vince con gli impresentabili.
Lo sport deve essere scevro da qualsiasi trucco, come la vita, sennò non c’è gusto. Ecco perché, da quando ho avuto consapevolezza di questo schifo, mi sono allontanato dal calcio: lo seguo ogni tanto, ma con distrazione, non con l’amore e la passione di un tempo, quando conoscevo tutto, dalla serie A alla terza categoria della Sardegna.
Con questo stato d’animo, oggi, seguo anche le partite della Nazionale. Ho fatto questa premessa perché, quando l’altra sera l’Italia è stata estromessa dai Mondiali ho avuto un vivace scambio di battute con mio figlio, un po’ come si fa fra bontemponi al bar dello sport dopo una partita di calcio, lui incazzatissimo come me a quell’età, io disincantato e sorridente come Jepp Gambardella quando parla della decadenza di Roma.
Una contesa in cui entrambi abbiano sfoggiato il meglio delle nostre conoscenze calcistiche, al punto che lui alla fine mi ha detto: “Perché non scrivi un pezzo su questa discussione?”. “Nooo dai, sarei poco originale, molto scontato, e poi… a chi può interessare?”. “Scrivilo lo stesso”. Alla fine ho deciso di accontentarlo.
E allora eccomi qui, un po’ per nostalgia e un po’ per divertimento, a fare un salto a ritroso nel tempo per accontentare un ragazzo e per annoiare quel paio di lettori che forse avranno l’amabilità e la pazienza di leggere questo pezzo che riassume le tesi e le parole moderne di un quindicenne e le tesi e le parole desuete di un cinquantenne: mio figlio discetta di ripartenze, di attaccare gli spazi, di scaricare la palla all’indietro, io sono ancora fermo al traversone, al contropiede, al catenaccio, al francobollo, alla zona Cesarini, alla melina, all’abatino. Questo articolo è un impasto fra il vecchio e il nuovo slang del calcio attraverso una conversazione animata tra padre e figlio.
La difesa a tre, già… Barzagli, Bonucci e Chiellini saranno pure bravi in fase di interdizione, ma come costruttori di gioco (un tempo i “fluidificanti”), con un pressing “alto” come quello svedese, entrano in crisi: troppi passaggi orizzontali, per giunta sbagliati, con il rischio di essere intercettati dagli avversari.
Il calcio di oggi non è quello di un tempo: allora un difensore aveva piedi ruvidi ed esauriva il suo compito marcando l’attaccante avversario. Oggi la manovra deve partire necessariamente dalla difesa, ma contemporaneamente devono esserci i centrocampisti in grado di correre senza palla e di smarcarsi. Barzagli, Bonucci e Chiellini non sono all’altezza dei Baresi (Franco), dei Maldini, dei Collovati, degli Scirea, dei Cabrini, dei Facchetti, dei Cannavaro, e i centrocampisti non corrono senza palla, dunque potremmo fermarci anche qui. Ma lui mi incalza.
È assolutamente necessario un play maker che sappia distribuire il gioco con estrema rapidità: un Pirlo. L’Italia di oggi non so se abbia giocatori di queste caratteristiche, ha Verratti che ancora deve dimostrare di essere il campione di cui si parla, c’è De Rossi ma è lento, buono per il campionato nostrano, ma inadatto a giocare contro avversari che corrono a duecento all’ora. Un po’ più svelto è Jorginho, che l’altra sera se l’è cavata discretamente, ma non sembra il giocatore in grado di consentire il salto di qualità alla squadra.
Se rivedi la partita, devi far caso a un particolare: la nostra formazione, invece di distribuirsi razionalmente in campo, tende ad assembrarsi attorno al pallone. Questo non consente di coprire tutti gli spazi del rettangolo e di ripartire quando l’avversario è sbilanciato.
Un particolare che si collega a un altro grosso handicap (forse il più evidente): la lentezza del palleggio. Contro gli svedesi abbiamo avuto un possesso palla dell’80 per cento, ma è stato un possesso palla sterile, improduttivo, inutile perché si è basato sul fraseggio e non sul passaggio veloce e di prima; è mancato il ritmo, il contropiede nei momenti cruciali, in cui gli svedesi erano sguarniti. Se perdi il tempo, diventi prevedibile e se diventi prevedibile dai la possibilità agli avversari di riposizionarsi e di chiudere gli spazi. Che dici?
Certo, ma in casi del genere – spiegano dalla serie A ai dilettanti – le difese vanno aggirate con il gioco sulle fasce, per finalizzare nell’area avversaria. Come? O attraverso un cross o attraverso le triangolazioni. Per sviluppare una manovra efficace è necessaria gente veloce e abile tecnicamente. Penso a giocatori come Bruno Conti, Causio, Maldini, Cabrini, Zambrotta, Donadoni. La Nazionale ha giocatori di questi livelli? Mah. A sinistra c’è Darmian, a destra Candreva. Contro la Svezia meglio il primo che il secondo: il giocatore del Manchester United ha cercato spesso la profondità e alcune volte l’ha trovata; quello dell’Inter no. Il primo è uno scattista, il secondo un passista. Caratteristiche che a livello internazionale sono fondamentali. Non a caso Darmian gioca in Inghilterra e Candreva in Italia. La fascia destra, contro la Svezia, è stato un altro punto debole.
Infine la ciliegina sulla torta: il mancato impiego di Insigne, l’uomo tecnicamente più dotato della Nazionale, l’unico che consente a una squadra di far variare gli schemi. Che, senza di lui, sono diventati troppo prevedibili con quei cross al centro puntualmente intercettati dai giganti svedesi. Con difensori alti ma lenti ci vogliono attaccanti veloci e tecnici. Insigne era l’ideale, e in una Nazionale nella quale in avanti non ci sono più i Baggio, i Del Piero e i Totti, lui era l’unico in grado di fare la differenza. E invece gli è stato preferito Gabbiadini che neanche in Italia ha fatto vedere grandi cose.
Se su altre questioni il ct potrebbe avere delle attenuanti, su questa ha mostrato un limite disarmante: se avesse perso con Insigne sarebbe uscito di scena come l’allenatore che le ha tentate tutte, ma è stato eliminato per una serie di coincidenze negative. Non giocare la carta migliore nella partita decisiva, significa infilarsi volontariamente in un tritacarne fatto di attacchi, di sarcasmo e di volgarità che Ventura – per onestà, una lunga gavetta in provincia e delle buone cose fatte col Torino – non merita. La verità è che non eravamo dei fenomeni prima, quando abbiamo inanellato una serie di risultati positivi prima, non siamo dei brocchi oggi: non abbiamo azzeccato le ultime tre partite, quelle decisive, ma credo che dovremmo essere più equilibrati in Italia nell’esprimere certi giudizi.
E però, caspita…
… Però sono convinto che la sfortuna abbia contribuito non poco sia all’andata (con quell’incredibile autogol) che al ritorno. All’andata il pareggio sarebbe stato il risultato giusto, al ritorno se avessimo vinto due, tre a zero non avremmo rubato nulla. E poi l’arbitraggio, sia in Svezia che a San Siro, ma su questo è meglio tacere, sennò mio figlio si incazza e si perde il fascino del bar dello sport.
Un’ultima cosa: tu puoi continuare a tifare Juve, come me quando avevo quindici anni, ma io continuerò a seguire il Pescara, lo allena Zeman e io tifo per lui, anche se dovesse andare in terza categoria.
Luciano Mirone
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