“Classe 1917” è l’ultimo libro di Vito Sapienza (gli altri due sono “La forza di un’idea” e “Un cammino che continua”). Un volume di 150 pagine (editore Alta Frequenza-Gruppo Rmb) che l’autore dedica al padre, nel senso che ad essere protagonista è lui, Alfio Sapienza, anno di nascita 1917. Non a caso il sottotitolo, “Una storia nella storia”, evidenzia come la storia minima di Alfio di Belpasso scorra nel contesto dei grandi accadimenti che, dal 1917 al 2003 (anno della sua morte), scandiscono la Grande storia. E quindi la Prima guerra mondiale, il fascismo, l’asse con Hitler, la Seconda guerra, la fame, la civiltà contadina (da queste pagine si coglie un inno a quell’epoca povera ma ricca di poesia), la vita nei campi cominciata a dieci anni quando, “vincendo ogni paura, Alfio trascorre la prima notte da solo in campagna”. E poi il dopoguerra (“Dopo la gioia del mio ritorno a casa, riprendo il mio solito lavoro di contadino”), il separatismo, le lotte contadine, il bandito Giuliano, la mafia dei feudi, il referendum fra monarchia e Repubblica, la contrapposizione – molto forte a quei tempi a Belpasso – fra clericali e anti clericali. Quindi il taglio del cordone ombelicale con la Terra d’origine e la partenza verso Terre lontane: “C’era tanta emigrazione verso l’Argentina e sono stato contagiato anch’io. Dei miei non voleva nessuno, ma io sono stato deciso”. Gli anni trascorsi a Buenos Aires, dove nasce Victor (l’autore del libro), le lettere ai parenti, e il ritorno in Sicilia, quando Victor ha quattro anni e da quel momento si chiamerà Vito. Ma gli anni in Sud America resteranno indelebili, nell’animo dell’autore e della sua famiglia, così come il viaggio di ritorno: “Rivivo ancora benissimo – stavolta a ricordare è Vito – le emozioni e le atmosfere delle mie ultime ore argentine… Rivedo i miei genitori felici, perché finalmente tornano nella loro terra. Io invece piango, non so perché, forse perché avverto che sto per lasciare la mia terra…”. Un libro che – come scrive Carmelo Toscano, autore della prefazione – “commuove il nostro animo e nello stesso tempo ci spinge a riflettere su sentimenti, speranze e ideali di una generazione, quella dei nostri genitori, cui il destino non ha permesso di scegliere”, perché, come risponde Victor-Vito in un’altra pagina, “se noi abbiamo potuto scegliere consapevolmente la vita che volevamo fare, lo dobbiamo ai nostri Padri e a questa classe 1917”. (luciano mirone)
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Questo un capitolo del libro:
L’estate del 2003 la trascorsi quasi interamente a fianco di mio padre. Non era mai capitato di stare assieme, lui ed io, a lungo. Da piccolo non vedevo l’ora che arrivasse la domenica per recarci a piedi a trovare i nonni. Mi piaceva quella lunga scarpinata attaccato alla sua mano lungo la via Roma e tra gli oleandri di via Vittorio Emanuele III dopo avere costeggiato la Villa comunale. Quest’ultima mi sembrava lunghissima, specie quando, invece di raggiungere via Petrarca da via Principe di Piemonte, la raggiungevamo dalla piazzetta di fronte la chiesa di San Giuseppe. Mi piaceva anche quando mi portava a Catania, dove avrei potuto curiosare a piacimento tra i banchi della Upim o entrare in un bar per bere un bicchiere d’acqua senza pagare nulla o gustare un bel cono gelato riempito dall’operatore azionando la manovella di uno strano armadio posto all’angolo di piazza Stesicoro, di fronte la statua di Vincenzo Bellini. Ai tempi delle Elementari aspettavo con ansia la pioggia, non tanto per indossare la mantella di gomma colorata che era il nostro status symbol o per fare schizzare con i piedi amorevolmente custoditi dentro le polacchette marca Pino l’acqua raccolta nelle pozzanghere, quanto perché all’uscita lo avrei trovato ad attendermi assieme agli altri papà che non erano potuti andare a lavorare per via della giornata piovosa. In inverno attendevo con impazienza il suo rientro dal lavoro per fargli vedere i compiti della giornata o per risolvere col suo aiuto qualche problema più complicato, ma il tempo che poteva dedicarmi sembrava non bastare mai. La situazione non cambiava di molto in estate e poco influiva la maggiore lunghezza delle giornate: mi sarebbe piaciuto averlo tutto per me, ma il resto della famiglia lo reclamava e non poteva concedersi “particolarità”.
Crescendo, le cose sono cambiate. È capitato altre volte di stare assieme, ma, quando ciò è accaduto, il tempo, più che al dialogo, è stato quasi sempre dedicato alle cose da fare in quel momento.
Posso dire che il tempo ha condizionato i nostri rapporti, imponendo ad essi la rapidità della sintesi. Adolescente, ricordo le sue lezioni sul fumo, che fa dannu ‘a saluti e ‘a sacchetta e il realismo della sua Psicologia dell’Età evolutiva che lo portava a concludere, escludendo divieti che sarebbero stati puntualmente trasgrediti, che è megghiu fumari intra ca fumari ammucciuni e pedi pedi. Ricordo le sue perplessità di fronte alla mia intenzione di iscrivermi al Liceo classico. Non tanto per le mie capacità, quanto per il fatto che, conseguita la Maturità, avrei dovuto per forza iscrivermi all’Università. E se si fosse presentato qualche imprevisto? Cosa avrei fatto? Con un diploma di Geometra, o di Perito o di Ragioniere, sarebbe stato diverso. Ricordo anche i nostri scontri dialettici scaturiti dalle nostre divergenze e alimentati dalla fisiologica distanza generazionale.
Quella del 2003 è stata un’estate diversa per me. Ogni mattina, al mio arrivo, più o meno allo stesso orario, mi accoglieva con la luce del solito sorriso che illuminava quel volto che via via diventava sempre più scarno.
Se le forze gli permettevano di stare seduto sulla sedia a rotelle, mi sedevo accanto a lui; se invece preferiva rimanere coricato, mi sdraiavo al suo fianco sul letto. Un giorno sì e un giorno no ci dedicavamo al rito della barba, al quale collaborava serrando le labbra o cercando di orientare il capo per agevolare la lama nella rasatura. Spesso ci dedicavamo ai cruciverba, che risolvevamo dividendoci i compiti: io a leggere la definizione e lui, in base al numero delle lettere, a darmi la risposta. Altre volte, per far sì che la sua mente fosse sempre attiva, lo sollecitavo sulle materie più disparate (dalle matematica – tabelline – alla storia – il Risorgimento – e alla geografia – monti, pianure e fiumi d’Italia, compresi gli affluenti di destra e di sinistra del Po), ottenendo esiti sorprendenti.
Certi giorni saltavamo sia l’enigmistica che le interrogazioni e allora ci mettevamo a parlare. Fra i due, per la verità, chi parlava di più era lui, probabilmente sorpreso della mia ritrovata e inattesa disponibilità. Io mi limitavo ad ascoltare e a porgli qualche domanda, talvolta di chiarimento, talaltra di approfondimento. Mi parlava di tutto: di quanto, una volta, fosse dura la vecchiaia per quegli anziani che non avevano né pensione né redditi; di quando le case e le strade non erano illuminate con l’energia elettrica; dei tempi grigi ma spensierati della sua fanciullezza; di quanto allora bastasse poco per essere felici; delle speranze della sua giovinezza; delle asperità della guerra e delle tribolazioni del dopoguerra; dell’arroganza di certi personaggi belpassesi quando il popolo cercava di alzare la testa (Non vi preoccupati – la minaccia, non troppo velata – ca s’acchianamu nuatri vi facemu travagghiari di suli a suli!), di sogni realizzati, non realizzati o realizzati in parte; dell’Italia diventata negli anni migliore di quell’ America che molti avevano invano cercato oltre Oceano; di quando mia sorella ed io eravamo piccoli; della fatica del lavoro; dei sacrifici accettati volentieri per il bene della famiglia; dell’ errore che commettono quei ragazzi che non vogliono né studiare né lavorare, di quelli che vanno avanti spinti dalle raccomandazioni. Mentre lo sentivo parlare, provavo per lui una grande ammirazione. Una generazione forte, la sua. Unica, forse. Ha inciampato, è caduta, ma ha saputo rialzarsi; ha conservato la speranza di fronte la paura; si è rimboccata le maniche e ha affrontato la fatica senza lamentarsi; ha ricostruito e costruito dopo la catastrofe; ha sacrificato buona parte del proprio presente per il nostro futuro; ha sopportato rinunce e privazioni, accontentandosi solo di trasferire sui figli le proprie aspirazioni; ha avuto meno di quanto avrebbe meritato.
Avrei dovuto dirgli tante cose, ma non ho fatto in tempo. Avrei dovuto dirgli tante cose, ma non ne ho avuto il coraggio, e ancora oggi mi rimane il grande cruccio di non avere saputo cogliere la grande occasione offertami, per un paradosso della vita, dalla malattia.
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