Un libro, “Le trattative” (Imprimatur editore), destinato a fare discutere, come le inchieste giudiziarie del suo autore, Antonio Ingroia, uno dei personaggi più eretici e più odiati dalla mafia e dalla politica collusa della Prima e della Seconda Repubblica. Un volume di 231 pagine scritto con il giornalista Pietro Orsatti, che parte “dal sistema criminale” e finisce, come recita il sottotitolo, “alla trattativa Stato-mafia”, per soffermarsi a “ventisei anni di attacchi ai pm” che hanno cercato e cercano “la verità”. Un libro che si avvale della prefazione del direttore de Il Fatto quotidiano Marco Travaglio, e dell’introduzione dell’ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, da leggere per comprendere i retroscena che hanno come protagonista proprio lui, Antonio Ingroia negli anni in cui, da magistrato, ha istruito i processi più delicati nei confronti di uno Stato, o un pezzo di esso, diventato eversivo per i suoi legami con entità criminali come Cosa nostra e i servizi segreti deviati. Un libro dedicato “Al mio maestro Paolo Borsellino, che in nome dell’intransigenza contro la mafia e ostile a ogni trattativa ha sacrificato la vita per tutti noi”. Questo il primo capitolo (l.m.).
Il 20 aprile 2018 nell’aula bunker di Palermo viene letta una delle sentenze più attese nella storia giudiziaria degli ultimi anni in Italia, in cui si dichiara senza mezzi termini che uomini dello Stato trattarono con Cosa nostra durante il biennio 1992-1993. Gli anni delle stragi.
Una sentenza storica, che dimostra per la prima volta l’esistenza non di un episodio ma di un sistema attraverso cui uomini dello Stato, degli apparati di sicurezza e della politica trattarono con la mafia. Non solo, quindi, le azioni di singoli personaggi che cercavano disperatamente di garantirsi una via di uscita da una crisi che rischiava di portarli ai margini della vita pubblica e istituzionale, ma una scelta e una strategia di un determinato coagulo di interessi e relazioni interconnessi fra loro, di chi aveva gestito determinati ambiti di potere della prima Repubblica e che a quel tempo voleva garantirsi una sopravvivenza personale e di funzione nella seconda che stava nascendo. Certo, nei successivi gradi di giudizio questa sentenza potrà incontrare ostacoli, le responsabilità degli imputati condannati (e anche quelle degli assolti) in appello e in Cassazione potranno essere modificate. Che questo avvenga fa parte del sistema di garanzie su cui si fonda il nostro ordinamento giudiziario e costituzionale. Ma la descrizione e il disvelamento del sistema che consentì, a quell’intreccio di figure e ambienti che si misero in moto venticinque anni fa per salvare se stessi, di approfittare della crisi per consentirsi impunità e potere, saranno per sempre descritti e stigmatizzati in un atto incancellabile, frutto dello sforzo di tutte quelle persone che in questi decenni hanno deciso di non farsi intimidire o di non scendere a patti (…)
Il processo sulla Trattativa nasce da un lavoro e da una serie di consapevolezze e intuizioni che scattarono già nella notte fra il 19 e il 20 luglio 1992. E che portarono in seguito a una serie di processi (Andreotti, Dell’Utri, Contrada, Mori-Obinu, per fare qualche esempio) e a una grande inchiesta, che ha un nome preciso, Sistemi criminali, della quale questo processo conclusosi poche settimane fa è erede e parte. Il nostro obiettivo è quello di raccontare l’enormità del lavoro che venne svolto all’interno della procura di Palermo e dell’incredibile serie di attacchi, difficoltà e veri e propri sabotaggi che vennero messi in atto per impedire che quella verità venisse alla luce (…)
Torniamo alla sentenza del 20 aprile. Dopo quattro giorni di camera di consiglio il presidente della Corte d’Assise di Palermo, Alfredo Montalto, ha letto la sentenza del processo Trattativa Stato-mafia. Condannati il boss corleonese Leoluca Bagarella e il medico di fiducia di Totò Riina, Antonino Cinà, rispettivamente pene di ventotto e dodici anni. Condannati a dodici anni anche gli allora ufficiali del Ros Antonio Subranni e Mario Mori, insieme all’ex politico di Forza Italia e collaboratore dell’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri. Condanna a otto anni, invece, per l’ex ufficiale del Raggruppamento operativo speciale Giuseppe De Donno. Dichiarato colpevole anche Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, condannato a otto anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Giovanni De Gennaro. Ciancimino è stato invece assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Assolto anche l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino dall’accusa di falsa testimonianza. I tre ufficiali dei carabinieri Mori, Subranni e De Donno sono stati assolti unicamente per le condotte contestate commesse dopo il 1993. Il cofondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri invece è stato assolto solo per le condotte contestate nei confronti dei governi precedenti a quello di Silvio Berlusconi nato nel 1994.
Andiamo a vedere nel dettaglio. Leoluca Bagarella, assieme a Giovanni Brusca e ai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, è stato ritenuto il prosecutore della linea stragista del capo dei corleonesi Totò Riina dopo l’arresto del 15 gennaio 1993. Bagarella è di fatto a capo di Cosa nostra quando si decide di trasferire la strategia terroristica fuori dalla Sicilia. Le bombe del 1993 colpiranno Roma, Firenze e Milano. Ed è anche lui a volere la nascita e a puntare su Sicilia Libera, il movimento politico che sarebbe dovuto essere diretta espressione dei clan mafiosi nelle istituzioni, e in seguito, così come raccontato da diversi collaboratori di giustizia, si schiera nella scelta già maturata fra Graviano e Provenzano di sostenere con il proprio “pacchetto di voti” la nascente creatura elettorale del tycoon brianzolo delle tv private.
Giovanni Brusca, oggi collaboratore di giustizia, è stato il primo a parlare esplicitamente di “trattativa” già nel 1996. Brusca raccontò come il dialogo aperto con Vito Ciancimino condusse Riina a ritenere che la strategia delle bombe pagasse: «Si sono fatti sotto, mi hanno chiesto cosa vogliamo per finirla e io gli ho consegnato un papello così» disse al boss di San Giuseppe Jato «circa 20 giorni dopo l’attentato a Giovanni Falcone». Papello che Riina fece capire essere “andato a finire a Mancino”, disse Brusca al processo. Ed è sempre lui in seguito che si occupò di cercare un contatto con Dell’Utri attraverso Vittorio Mangano (l’ormai celebre stalliere di Arcore, ma ancor prima capo mafia alla guida del mandamento di Porta Nuova, uno dei più prestigiosi e importanti di Palermo). Il collaboratore racconta anche di una riunione in cui, assieme a Bagarella, aveva incaricato proprio l’anomalo stalliere di Arcore di prendere contatto con Dell’Utri per arrivare fino a Berlusconi. Secondo i pm di Palermo l’obiettivo era sempre quello di «svuotare il 41 bis e ottenere benefici per detenuti per mafia. Un’interlocuzione che si prefiggeva di creare uno stabile rapporto per riavviare la trattativa per le esigenze di Cosa nostra. Brusca aveva detto a Mangano di esercitare forte pressione su Berlusconi, altrimenti avrebbero fatto altri attentati».
Secondo i magistrati di Palermo, Riina, Provenzano, Brusca, Bagarella e Antonino Cinà sarebbero stati «gli autori immediati del delitto principale, in quanto hanno commesso, in tempi diversi, la condotta tipica di minaccia a un corpo politico dello Stato, in questo caso il governo, con condotte diverse ma avvinte dal medesimo disegno criminoso, a cominciare dal delitto Lima».
Il papello, secondo la ricostruzione dei pm, sarebbe stato consegnato da Cinà al figlio di Vito Cincimino, l’ex sindaco e potentissimo assessore ai lavori pubblici democristiano di Palermo al tempo del “sacco” del capoluogo siciliano, con cui gli uomini del Ros entrarono in contatto. Del papello e di Cinà avevano parlato altri pezzi da novanta di Cosa nostra come Pino Lipari, Totò Cancemi, Giovanni Brusca e Nino Giuffré.
Secondo l’accusa l’ex colonnello Mario Mori, che successivamente guidò il Sisde, fu il principale promotore degli incontri con Vito Ciancimino per aprire un canale di trattativa con Cosa nostra. Un’ iniziativa di cui però non riferì alle autorità giudiziarie, cercando invece una copertura da parte di alcuni politici. La procura di Palermo ha individuato due canali di contatto tra Mori e Cosa nostra: oltre a quello con Ciancimino, Mori si mosse con l’ex esponente neofascista di Avanguardia nazionale Paolo Bellini, in contatto con il boss Antonino Gioè, in relazione a uno scambio di opere d’arte rubate. Una trattativa “bis” poi abbandonata attorno alla fine del 1992, perché secondo la ricostruzione dell’accusa del processo «c’era un’altra trattativa in corso che arrivava ai piani più alti del governo». Tutto gestito da Mori che, secondo l’accusa, già in precedenza andava contro le regole, muovendosi autonomamente e fuori il controllo della magistratura. Stando a quanto raccontato in aula dal colonnello Massimo Giraudo, Mori aveva spesso agito in quel modo fin dal suo operato al Sid (ex Sismi e attuale Aisi), da cui poi venne allontanato nel 1975. Allontanamento che i pm hanno ipotizzato poter essere legato a un suo possibile coinvolgimento nell’organizzazione segreta Rosa dei Venti. In seguito, una volta al Ros, Mori si rende protagonista di controverse vicende investigative, dalla mancata perquisizione del covo di Riina alla mancata cattura di Provenzano. In entrambi i casi è stato processato e assolto.
Anche ad Antonio Subranni, generale ed ex comandante del Ros, e a Giuseppe De Donno, ex ufficiale del Ros, i pm hanno contestato il reato di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato, chiedendo una condanna a dodici anni di reclusione. Il loro ruolo sarebbe stato quello di anelli di collegamento fra mafia e Stato assieme a Mario Mori; e ancora, dopo l’omicidio di Lima, Subranni entrò in contatto con l’ex ministro della Dc, Calogero Mannino, che temeva per la propria vita.
Intermediario nel rapporto tra il politico e il capo del Ros sarebbe stato il maresciallo Guazzelli, poi ucciso il 4 aprile 1992. Secondo i pm quell’assassinio rappresentò un segnale anche per Mannino e il Ros che poi, dichiarano i pm, «attiverà l’interlocuzione occulta con i vertici di Cosa nostra che infatti, di lì a pochissimo, gli uomini di Subranni, Mori e De Donno, avvieranno con Vito Ciancimino».
La corte di Assise ha condannato a dodici anni l’ex senatore Marcello Dell’Utri, che sta già scontando la condanna a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo la ricostruzione dei pm il cofondatore di Forza Italia era l’uomo cerniera nella seconda parte della trattativa tra Cosa nostra e i nuovi referenti politici nel partito di Berlusconi. Il braccio destro di Berlusconi, in contatto con Vittorio Mangano e Giuseppe Graviano, sarebbe stato il canale utilizzato da Brusca e Bagarella per veicolare il messaggio intimidatorio all’uomo di Arcore, per arrivare al patto di non belligeranza con la sospensione delle bombe in cambio di norme per l’attenuazione del regime carcerario duro.
Lo spaccato che emerge da questa sentenza è tale da mettere in discussione sia la lettura storica che quella etica e politica del nostro Paese. E impone a tutti noi uno sforzo per riuscire a ricondurre la nostra democrazia all’interno di un processo che escluda la possibilità che uno Stato invisibile possa ancora mortificare quello visibile, nelle mani di una presunta élite, una classe dirigente criminale che si pone fuori da ogni regola e convenzione e legge fino a spingersi a trattare e stringere patti con poteri occulti, ideologie eversive e organizzazioni mafiose. Diventa quindi indispensabile un processo di disvelamento e di presa di coscienza, che non sia solo giudiziario, ma che sia anche politico. E questo diventa ancora più importante per il momento storico che stiamo attraversando, con il difficile passaggio a una cosiddetta terza Repubblica, che nasce dalle fragilità, contraddizioni e ombre irrisolte di quella che l’ha preceduta, figlia, appunto, della Trattativa.
Antonio Ingroia
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