Ci sono diversi tasselli da collocare nel mosaico delle strane morti che, direttamente o indirettamente, riguardano l’ospedale “Belcolle” di Viterbo. Alla morte “accidentale” per overdose di eroina che i magistrati di Viterbo attribuiscono all’urologo siciliano Attilio Manca, il quale, secondo loro, si sarebbe praticato una “inoculazione volontaria” nel braccio sbagliato (quello sinistro, dato che il medico era un mancino puro), adesso si aggiunge il decesso del pentito del Clan dei Casalesi, Carmine Schiavone, morto lo scorso 22 febbraio nel reparto di ortopedia di quell’ospedale, dove era stato operato in seguito a una caduta “accidentale” dal tetto della sua abitazione. Un incidente che, dopo un intervento chirurgico ad una vertebra, viste le buone condizioni del paziente, tutto faceva presagire tranne la morte per “arresto cardiaco”, che al momento appare troppo generica per potere liquidare la vicenda come “decesso naturale”.
Come si saprà, le rivelazioni dell’ex collaboratore di giustizia avevano aperto il coperchio sullo scandalo del traffico dei rifiuti tossici gestiti dalla camorra che hanno avvelenato l’agro campano con conseguenze devastanti per la vita degli abitanti.
Due storie – quella di Attilio Manca e di Carmine Schiavone – apparentemente slegate, ma che hanno come comune denominatore lo stesso ospedale (il “Belcolle”), la stessa città (Viterbo), le stesse entità, cioè mafia, affari, servizi segreti deviati e massoneria.
Se l’ex boss campano è morto per volere del Padreterno o per volontà dalle entità di cui sopra, devono stabilirlo i magistrati di Viterbo – in questo caso il Pubblico ministero Francesco Pacifici – che hanno aperto un’inchiesta (un altro fascicolo è stato aperto dalla Procura di Roma e riguarda i numerosi documenti trovati nella casa di Schiavone).
In tutta sincerità non abbiamo alcun motivo di dubitare delle capacità professionali del dottor Pacifici, ma ci chiediamo se quella Procura sia in grado di svolgere un’inchiesta così delicata, se si pensa al modo in cui il procuratore della Repubblica Alberto Pazienti – assieme al sostituto Renzo Petroselli – ha gestito il Caso Manca.
Parlare dell’inchiesta sulla morte dell’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), vuol dire fare un lunghissimo elenco di omissioni, di incongruenze, di bugie, che hanno visto protagoniste assolute proprio la Procura e la Squadra mobile di Viterbo, quest’ultima diretta all’epoca da Salvatore Gava, condannato dalla Cassazione a tre anni di reclusione e all’interdizione per cinque anni dai pubblici uffici per aver falsificato, tre anni prima, un verbale in occasione del G8 di Genova.
Secondo le prime indiscrezioni, il decesso di Carmine Schiavone – sarà una coincidenza – presenta le stesse caratteristiche che nelle prime ore furono dichiarate su Attilio Manca: “morte naturale”. “Arresto cardiaco” per l’ex boss, “aneurisma cerebrale” per il medico.
Per quanto riguarda Manca, la versione dell’”aneurisma”, nei primi due giorni sarebbe stata “scremata” dal particolare relativo al ritrovamento delle siringhe e dei buchi nel braccio sinistro. Almeno questo è quanto sostiene la famiglia. Queste circostanze sarebbero state taciute proprio nel lasso temporale (quarantotto ore) indicato dagli esperti di criminologia per scoprire o per compromettere definitivamente (o quasi) le prove di un delitto.
Sarà un’altra coincidenza, ma in quelle ore si verificarono due fatti determinanti: da un lato (in virtù della “morte violenta” per droga) vennero sequestrati il computer, gli appunti e le ricette mediche della vittima (una miniera di notizie sulla vita privata e professionale della stessa); dall’altro non fu nominato dalla famiglia Manca (dato che si era in presenza di una “morte naturale”, causa di un fisiologico abbassamento del livello di attenzione dei congiunti) un perito in grado di contestare eventuali anomalie presenti sia durante l’autopsia, e sia durante i relativi esami. Con la conseguenza che l’esame autoptico e l’esame tricologico (quest’ultimo è l’analisi sul capello della vittima per accertare assunzioni pregresse di stupefacenti) sono infarciti di una serie di incongruenze che nessuno ha mai spiegato.
Nel caso dell’autopsia non si capisce perché la dottoressa Dalila Ranalletta (moglie del primario di Attilio Manca, che per primo parò di aneurisma cerebrale e che convinse “bonariamente” Angela e Gino Manca di non vedere il cadavere del figlio), in perfetta sintonia con il verbale di sopralluogo della Squadra mobile, non abbia descritto lo stato del volto (pieno di sangue), del setto nasale (deviato), delle labbra (gonfie e tumefatte), dei testicoli (enormi e contrassegnati da ecchimosi visibilissime), che le foto scattate dalla Polizia Scientifica mostrano chiaramente. Non si capisce perché il medico legale e la Polizia scrivano: “Il corpo di Attilio Manca non presenta segni di violenza”, quando dalle immagini si vede un cadavere che “parla” da solo. Non si capisce perché si tace sullo stato dei polsi e delle caviglie contrassegnati da “macchie emostatiche” (come rileva il medico del 118), e sulle unghie della vittima “piene di una materia nerastra come quella dei meccanici e dei contadini”, come testimoniano gli zii della vittima.
Così come non si capisce perché di esame tricologico (positivo secondo i magistrati) la Procura di Viterbo parli otto anni dopo, senza avere mai inviato una notifica alla famiglia Manca e al suo avvocato Fabio Repici (affiancato da un anno dall’avvocato Antonio Ingroia). Incomprensibile il perché la Procura si sia rifiutata, per ben otto anni, di far prendere le impronte digitali sulle siringhe ritrovate a pochi metri dal cadavere (l’esame, nel 2012, ha dato esito “neutro”, nel senso che sulle siringhe non sono state trovate tracce né della vittima, né di altri, e malgrado questo i magistrati insistono sull’”inoculazione volontaria” di eroina), o il perché, con ostinazione degna di miglior causa, gli inquirenti non abbiano richiesto i tabulati telefonici di Attilio Manca. Uno, in particolare, riguarda l’autunno del 2003, periodo nel quale l’urologo sarebbe stato nel Sud della Francia “per vedere un’operazione” (frase testuale che avrebbe riferito alla madre per telefono), mentre il boss corleonese Bernardo Provenzano si operava di cancro alla prostata in quel di Marsiglia (nel Sud della Francia).
Ed è proprio l’operazione del “capo dei capi” che la Procura non vuole collegare con l’attività professionale di Attilio Manca, anche a costo di tralasciare elementi indispensabili per fare luce su uno dei casi più scottanti degli ultimi anni, anche a costo di accreditare una morte per droga che – senza alcun elemento probatorio – fa acqua da tutte le parti, e anche a costo di fabbricare (da parte della Squadra mobile di allora) un falso clamoroso sulla presenza di Attilio Manca all’ospedale “Belcolle” di Viterbo, proprio nei giorni in cui Provenzano si operava a Marsiglia, e di avallarlo (da parte della Procura) senza alcuna spiegazione, dopo che la troupe della trasmissione “Chi l’ha visto” (gennaio 2014) ha scoperto che proprio in quei giorni l’urologo siciliano era assente dal posto di lavoro. Dov’era? Perché i magistrati non hanno indagato su questo aspetto? Perché non hanno cercato di sapere – anche attraverso i tabulati telefonici – se il medico in quel periodo era davvero a Marsiglia? Perché si sono sempre rifiutati di ricevere i familiari di Attilio Manca? E’ vero che di recente hanno ricevuto in Procura proprio l’ex capo della Squadra mobile? Perché? È stato un incontro ufficiale? Esiste un verbale? Attilio Manca era depositario di segreti di Stato relativi all’operazione di Bernardo Provenzano e alla rete di protettori altolocati che hanno assicurato la sua latitanza per oltre quarant’anni, anche a Barcellona Pozzo di Gotto? Nessuna risposta da parte della Procura di Viterbo.
Anche Carmine Schiavone era depositario di tanti segreti di Stato, specie i rapporti perversi fra la camorra, la politica, la P2 e i servizi segreti deviati. Un connubio che da decenni protegge il traffico e lo sversamento di rifiuti velenosi (anche nucleari) in Campania e oltre. Oltre dove? Recentemente l’ex collaboratore di giustizia aveva dichiarato: “La provincia di Viterbo non è immune dal traffico dei rifiuti”. Ed aveva annunciato altre clamorose dichiarazioni.
La provincia di Viterbo… Con il suo capoluogo apparentemente tranquillo, e con il suo ospedale, dove da molti anni vengono ricoverati i detenuti in regime di 41 bis (i mafiosi).
Su questo aspetto – nell’ambito delle indagini sulla morte di Attilio Manca – non si è mai fatta luce, né i vertici della Procura hanno mostrato particolare curiosità nell’approfondire la faccenda. L’urologo è mai venuto in contatto con esponenti di quel mondo? Diversi elementi lo fanno supporre: una frase del procuratore Pazienti riferita ad Ugo Manca, personaggio organico all’”alta mafia” di Barcellona Pozzo di Gotto (quella, per intenderci, coinvolta nella strage di Capaci e nell’assassinio del giornalista Beppe Alfano), nonché cugino della vittima, con la quale lo stesso, negli ultimi tempi, è stato in contatto. La prova? Un’impronta palmare di Ugo rinvenuta nell’appartamento di Attilio, e giustificata dall’interessato con il pernottamento in quella casa per un intervento di varicocele che il cugino gli avrebbe fatto l’indomani in ospedale.
Dicevamo… c’è una frase che, a proposito di Ugo Manca, il procuratore Pazienti, si lascia scappare nel 2012 in occasione di una conferenza stampa: “Ugo Manca è il punto di riferimento dei Barcellonesi che si operano al ‘Belcolle”. Quali Barcellonesi? Nel periodo in cui muore Attilio Manca, nel carcere di Viterbo, è detenuto il capo di Cosa nostra barcellonese, Sem Di Salvo, che all’inizio degli anni Novanta aveva ospitato il boss catanese Nitto Santapaola (grandi collegamenti con la politica, la massoneria e i servizi segreti deviati) a Barcellona durante la latitanza. In un rapporto di polizia, il solito Gava smentisce un “contatto medico” fra Sem Di Salvo e Attilio Manca. Questo però non esclude che il boss non abbia avuto un ruolo dal carcere. Anche perché negli ultimi giorni della sua vita, l’urologo avrebbe ricevuto una telefonata del cugino Ugo per una “raccomandazione” nei confronti di un altro boss di primo piano di Barcellona, tale Angelo Porcino, sulla cui eventuale presenza a Viterbo gli investigatori non hanno scoperto nulla. Anzi, hanno sostenuto che Porcino – titolare di un’attività commerciale – era addirittura sprovvisto di utenze telefoniche. Un fatto è certo: nell’appartamento di Attilio – assieme al cadavere – sono stati trovati, ben riposti su un tavolo, degli strumenti operatori (un bisturi, un paio di forbici e un ago con del filo da sutura ancora inserito) mai visti prima dai frequentatori di quella casa (familiari compresi). A cosa dovevano servire? Anche in questo caso silenzio assoluto. Quel che è interessante sapere – dato che sulla trance riguardante l’attività mafiosa di Carmine Schiavone è titolare la Procura di Roma – è se l’ospedale “Belcolle (o parte di esso) è quell’isola felice che qualcuno vorrebbe far credere, o un covo di vipere adibito anche a certe strane operazioni.
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