La notizia è destinata ad essere derubricata tra le flash di questi primi caldi giorni di luglio, e invece se ci pensiamo, i telegiornali odierni, con un fatto del genere, dovrebbero fare la loro apertura: si tratta del dramma di un uomo che rappresenta milioni di persone che hanno perso o non hanno mai trovato il lavoro. Una emergenza che nessun governo, di destra e di sinistra, è mai riuscito a risolvere.
Un signore di 52 anni di Siracusa si è dato fuoco e si trova ricoverato in prognosi riservata con ustioni sul 90 per cento del corpo in ospedale a Palermo, perché secondo quanto ricostruito dai carabinieri, alla base del gesto disperato, vi sarebbe la crisi coniugale, conseguenza della perdita del posto di lavoro.
Il disoccupato si è recato con la sua auto nella zona di contrada Maeggio, a quindici chilometri dal capoluogo: si è cosparso il corpo di benzina, è rientrato in auto e si è dato fuoco. Preso dal panico è sceso dalla vettura ed è stato soccorso da alcuni passanti.
Questa la notizia, nuda e cruda, diffusa in mattinata dall’Ansa, con la quale potremmo liquidare il fatto pubblicando queste poche righe, magari per metterci in pace con la nostra coscienza.
Di quest’uomo – probabilmente per motivi di privacy – non è stato diffuso il nome, e neanche le iniziali: è un fantasma in mezzo a tanti fantasmi che vivono la mancanza di una occupazione o perché l’hanno persa (come in questo caso) o perché addirittura non l’hanno mai avuta. Si sa che è sposato e che la perdita del lavoro ha causato una grave crisi familiare culminata con il tentato suicidio. Si sa pure che ha 52 anni, e a quell’età, se perdi il lavoro, difficilmente lo riprendi.
“Chi non l’ha mai provato non può mai capire”, mi disse una volta un uomo di cinquant’anni licenziato dalla sua ditta entrata in crisi nel periodo nero di Tangentopoli. Non sapeva come far vivere la moglie e i suoi tre figli. “Ti senti impotente, inutile, con un senso di frustrazione che ti assale costantemente senza che tu possa far nulla”.
Ci fu una breve pausa, come se l’uomo volesse bagnarsi la bocca con quell’unica stilla di saliva rimastagli in bocca. “Sono drammi che si vivono in silenzio”, fece lui, “parlarne è vergogna. E allora devi inventarti un sacco di cose pur di nascondere tutto questo, soprattutto ai tuoi figli”. E quando pronunciò la parola “figli” ebbe un sussulto, un misto di rabbia e di pianto che alla fine riuscì a controllare. “Quei figli che escono, vanno a scuola e magari si sentono chiedere: ‘Che lavoro fa tuo padre?’. E loro non sanno cosa rispondere. È in quel momento che ti monta una rabbia dentro che spareresti a tutti quelli che ti hanno ridotto così. Ma a chi spari? E allora cominci a morire dentro”.
Poi seppi che quell’uomo aveva trovato un altro lavoro e si era salvato. Ma nel frattempo altri erano caduti nel vortice della disperazione e – come il cinquantaduenne di Siracusa – avevano deciso di farla finita. L’uomo di oggi, per fortuna, si è salvato, anche se è ancora in prognosi riservata e con il 90 per cento di ustioni in tutto il corpo. Lo Stato – se è tale – deve prendersi cura di lui e della sua famiglia.
Luciano Mirone
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