“Sarebbe stato Giuseppe Gullotti, boss di Barcellona Pozzo di Gotto (mandante del delitto del giornalista Beppe Alfano e consegnatario del telecomando della strage di Capaci), a confidare in carcere all’ex capo del clan del clan dei Casalesi, Giuseppe Setola, che l’urologo siciliano Attilio Manca non sarebbe morto per due iniezioni ‘volontarie’ di eroina al braccio sinistro (come da 11 anni asserisce la Procura di Viterbo), ma sarebbe stato ucciso dalla mafia (e forse non solo) perché depositario dei segreti inconfessabili sull’operazione di cancro alla prostata alla quale, nell’autunno del 2003, si era sottoposto il boss Bernardo Provenzano a Marsiglia, nonché sulla fitta rete di protezioni ad alto livello di cui per molti anni ha goduto il capomafia corleonese”.
A svelare questa clamorosa “indiscrezione” (così la definisce) a questo giornale è Antonio Ingroia, avvocato della famiglia Manca ed ex Pm antimafia di Palermo, il quale, alla vigilia dell’audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia (prevista per oggi alle 14) rivela un particolare che potrebbe aprire nuovi scenari in merito alla morte dell’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto, città che ha ospitato latitanti di Stato come Binnu Provenzano, Nitto Santapaola e Gerlando Alberti jr.
Attilio Manca, come si ricorderà, è stato trovato morto nel suo appartamento di Viterbo (città nella quale prestava servizio presso l’ospedale “Belcolle”) il 12 Febbraio 2004 con due buchi al braccio sinistro e due siringhe ritrovate a pochi metri, con tappi salva ago ancora inseriti. Fin dalle prime battute gli inquirenti laziali hanno imboccato la pista dell’”inoculazione volontaria” di eroina (mista ad alcol e sedativi), non prendendo in considerazione l’ipotesi del delitto di mafia camuffato da suicidio. Eppure molti particolari non hanno mai convinto, a cominciare da quei buchi che si sarebbero dovuti trovare nel braccio opposto, dato che la vittima era mancina. Ma anche la mancanza del laccio emostatico, del cucchiaio sciogli eroina e dell’involucro di stagnola dal luogo del “suicidio”, non hanno mai deposto per la morte “volontaria” per droga. A maggior ragione se si pensa che dalle foto scattate pochi minuti dopo, si vede un volto pieno di sangue, un setto nasale deviato, delle labbra gonfie e tumefatte e dei testicoli enormi con lo scroto contrassegnato da una evidentissima ecchimosi, come se alla vittima fosse stato sferrato un calcio violento per immobilizzarlo, prima di eventuali buchi praticati da altri.
Eppure di questi particolari fondamentali per la ricostruzione della dinamica del decesso, non si trova traccia né nel verbale di sopralluogo redatto dalla Polizia di Stato, né nel referto autoptico eseguito dal Medico legale Dalila Ranalletta (oggi dirigente dell’Asp 1 di Roma e consulente della trasmissione Mediaset, “Quarto grado”), che ha svolto l’autopsia.
Un caso di “morte per overdose” alquanto anomalo, se si pensa che nell’appartamento della presunta spacciatrice romana Monica Mileti (oggi sotto processo con l’accusa di avere fornito al medico siciliano “la dose letale di eroina”), rovistato da cima a fondo dopo la morte del medico siciliano, non è stata trovata traccia di droga, o se si pensa che sulle siringhe ritrovate a casa di Manca, per ben otto anni non è stata effettuata l’analisi delle impronte digitali, accertamento svolto solo nel 2012 con esito “neutro”, nel senso che nessuna traccia è stata trovata né nel cilindretto né nello stantuffo delle iniezioni.
Ma sono tante le incongruenze investigative che dal 2004 contrassegnano questo caso. Tante e oscure. Al punto che non si comprende, per esempio, per quale misteriosa ragione la procura di Viterbo abbia ritenuto di non acquisire i tabulati telefonici di Attilio Manca relativi all’autunno del 2003, quando, in coincidenza con la presenza di Provenzano a Marsiglia, l’urologo, secondo i familiari, sarebbe stato nel Sud della Francia. Oppure perché certi “amici” di Barcellona Pozzo di Gotto hanno prima smentito l’uso di stupefacenti da parte della vittima, e poi dichiarato l’opposto, con una Procura che si è limitata a prendere atto della clamorosa ritrattazione.
A dare una risposta a questi misteri, come detto, ci sarebbe stato l’ex boss dei Casalesi, Giuseppe Setola, il quale, nei mesi scorsi, avrebbe vuotato il sacco su alcuni eventuali retroscena. Setola ha incontrato i magistrati del pool antimafia di Palermo Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia, che si stanno occupando della “trattativa”. Quando la notizia è trapelata, il capomafia ha fatto marcia indietro, tanto da essere considerato inattendibile anche per un atteggiamento al limite della paranoia tenuto nel corso di altri processi, che ha destato nei magistrati napoletani non poche perplessità. Una retromarcia decisa – secondo alcuni – per non esporre la sua famiglia (che non intende muoversi da Casal di Principe) da eventuali rappresaglie dei clan camorristici.
Ma una domanda è d’obbligo: se Setola – con i suoi strani comportamenti – è da considerare inattendibile, lo sono anche le sue dichiarazioni? È questo uno dei punti di snodo – assieme alle affermazioni sibilline che il pentito Stefano Lo Verso ha rilasciato nei mesi scorsi proprio sul caso Manca – che potrebbe far fare all’inchiesta il salto di qualità, ovvero il trasferimento del fascicolo dalla Procura di Viterbo alla Procura distrettuale antimafia di Roma e alla Procura nazionale antimafia.
Dott. Ingroia, cosa dirà alla Commissione parlamentare antimafia.
“Che siamo di fronte ad un palese delitto di mafia, sul quale sembra che soprattutto la magistratura di Viterbo (anche a costo di voler negare l’evidenza) non voglia mettere un dito. Nel frattempo si è arrivati al paradosso che perfino l’avvocato di parte civile (cioè il sottoscritto) sia stato incriminato per calunnia per avere detto una cosa peraltro rivelata da giornalisti, libri e trasmissioni televisive, e cioè che questo caso è stato caratterizzato da depistaggi, falsi e insabbiamenti”.
Lei è accusato di diffamazione dalla Procura di Viterbo per aver parlato di un rapporto redatto dall’allora capo della Squadra mobile di Viterbo, Salvatore Gava, il quale ha escluso che Attilio Manca, nell’autunno del 2003, fosse in Francia. Gava scrive che il chirurgo sarebbe stato regolarmente presente all’ospedale “Belcolle” di Viterbo, però è stato clamorosamente smentito da un’inchiesta dalla trasmissione di Rai3, “Chi l’ha visto”.
“Di certo so che non esiste alcuna querela contro di me da parte del dott. Gava. Questo mi ha sorpreso non poco, quindi non comprendo da dove sia nata l’iniziativa di incriminarmi per diffamazione”.
Sul caso Manca si arriverà alla verità?
“Credo di sì. Ho una fede incrollabile nella giustizia. Quando ci sono tanti che remano contro, la verità fatica a venire a galla, però sono convinto che l’impegno della Commissione antimafia possa essere da stimolo per la Procura distrettuale antimafia di Roma e per la Procura nazionale antimafia”.
Quali devono essere le prerogative affinché la Procura distrettuale antimafia di Roma e la Procura nazionale antimafia possano prendere nelle mani il caso Manca?
“Secondo me ci sono tutte. Ci sono state dichiarazioni di collaboratori di giustizia (alcune ritrattate, alcune allusive) dentro un quadro tale che impone una verifica da parte delle due Procure”.
La Commissione parlamentare antimafia può svolgere un ruolo importante per dare nuovi impulsi all’inchiesta?
“Ricordo che il caso Impastato, molti anni fa, riprese vigore anche grazie a un’inchiesta penetrante che venne fuori proprio dalla Commissione antimafia”.
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