Egregio Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma Elvira Tamburelli, Lei in questo momento ha nelle mani l’ultima, flebile possibilità di far continuare l’indagine su uno dei casi più sconvolgenti degli ultimi decenni, la morte dell’urologo Attilio Manca, ritrovato cadavere nel letto del suo appartamento di Viterbo la mattina del 12 febbraio 2004. Fin dall’inizio il fatto è stato derubricato a decesso “volontario” per overdose di eroina senza lo straccio di una prova, eppure esistono degli elementi che dovrebbero portare a nutrire quantomeno il beneficio del dubbio sull’ipotesi alternativa, ovvero un omicidio (se “semplice” o di mafia lo vedremo dopo).
Quindi Lei, Egregio Gip, ha la possibilità di chiedere alla Procura capitolina diretta da Giuseppe Pignatone di approfondire moltissimi aspetti che non sono neanche stati sfiorati, oppure di archiviare definitivamente il caso confermando il concetto che ha caratterizzato questa storia: l’apparenza.
Del resto, gli elementi per imbastire una storia degna di Pirandello, nella quale molti personaggi hanno svolto un incredibile gioco delle parti, ci sono tutti: due siringhe a pochi metri dal cadavere, due buchi nel braccio sinistro di un mancino puro (ma qui l’apparenza comincia a vacillare), un esame tossicologico che conferma la presenza di eroina nell’organismo della vittima, un esame tricologico sul capello (per il quale sono emersi parecchi dubbi) che dimostrerebbe un uso pregresso di stupefacenti da parte della vittima, sono i giusti ingredienti per “chiudere il caso” dando spazio esclusivamente all’apparenza.
Pensi che perfino la famiglia Manca, allora, non nominò un perito che assistesse all’autopsia e agli esami collaterali. E sa perché? Perché per i primi due giorni la versione ufficiale delle autorità competenti fu “decesso per aneurisma cerebrale”, dunque una morte naturale per la quale la famiglia – in quei momenti di confusione e di smarrimento – a tutto pensò tranne che a nominare un esperto di medicina legale. Questo, probabilmente (ma non solo), ha condizionato le dinamiche successive della storia.
Lei, Egregio Giudice Tamburelli, ha la possibilità di fare quel che la Procura, il Gip e la Squadra Mobile di Viterbo, nonché, per ultima, la Procura della Repubblica di Roma, non hanno fatto: spingersi oltre le apparenze attraverso la forza dirompente dei fatti.
Il primo fatto anomalo di questa storia è l’indagine di Viterbo. Piena di omissioni, di bugie, di contraddizioni e di mezze verità. Un’indagine che ha compromesso molte cose. Se a questo si aggiunge un pezzo consistente di politica (basta leggere l’incredibile relazione di maggioranza della Commissione parlamentare antimafia presieduta dall’onorevole Rosy Bindi), il quadro è completo.
Sbagliamo se scriviamo che sulla storia del trentaquattrenne medico di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) è stata imbastita un’azione finalizzata esclusivamente a far prevalere l’apparenza? Sbagliamo se diciamo di non credere all’ingenuità dei magistrati, dei poliziotti, del Medico legale e di determinati esponenti parlamentari del centrosinistra e del centrodestra che hanno fatto delle ricostruzioni talmente arbitrarie da apparire grottesche?
Lei, Egregio Gip, ha letto sicuramente tutte le carte del caso e quindi si è fatta un’idea di questa storia. Ci consenta di porLe alcune domande, scusandoci fin d’ora se ci permettiamo, poiché sappiamo che Lei – giustamente – non risponderà in quanto legata al segreto professionale. E però ci permettiamo di porglieLe lo stesso, poiché riteniamo che le domande, anche se non hanno risposta, siano balsamo per la democrazia di un Paese malato come il nostro.
1) Signor Gip, Lei certamente ha letto il referto dell’autopsia stilato dal Medico legale Dalila Ranalletta (altra protagonista “ingenua” di questa storia) e quindi si sarà fatta un’idea di come sia stato condotto l’esame autoptico. A cominciare dagli orari in cui lo stesso Medico legale si sarebbe recata nell’appartamento di Manca dopo il rinvenimento del suo corpo: la Polizia scrive alle 11,30, la professionista alle 14,30. Quale delle due versioni è vera? Non è mai stato appurato. Intanto in quell’arco di tempo (tre ore) è stato spostato il cadavere e potrebbe essere stata inquinata la scena della morte. È possibile spostare un cadavere in assenza di un Medico legale? E’ vero che basta una discrepanza del genere per invalidare l’inchiesta? Invalidare l’intera inchiesta vuol dire per caso invalidare il processo nel quale è stata condannata Monica Mileti, la donna romana colpevole – secondo i magistrati di Viterbo – di avere ceduto l’eroina ad Attilio Manca? Perché la professoressa Ranalletta non ha ritenuto di descrivere lo stato del naso, delle labbra e dei testicoli della vittima? Perché non ha descritto l’origine di tutto quel sangue depositatosi copiosamente sul letto e sul pavimento? Perché non ha detto se quel sangue era fresco o rappreso (dalle immagini sembra fresco) in modo da farci capire quando è uscito? Perché non ha ritenuto di rilevare “scientificamente” – attraverso un termometro – la temperatura sul cadavere in modo da risalire all’orario approssimativo della morte? Perché lo ha fatto mediante il “termo tatto”, sistema alquanto soggettivo e superficiale che nessuno dei magistrati ha mai osato mettere in discussione? Perché un sacco di gente – anche della questura di Viterbo, e per cosa poi, per un banale decesso da overdose? – ha partecipato all’autopsia senza essere stata identificata, quando la legge prevede la trascrizione completa e precisa delle presenze? Perché il Medico legale ha parlato di “cadavere risolto” (dicendo indirettamente che la morte era avvenuta da molte ore) e la Polizia di “cadavere ancora fresco” (circostanza che lascia supporre una morte recente)? Perché se sul cadavere non sono trovati altri buchi, oltre ai due descritti in autopsia, si parla di assunzione pregressa da parte della vittima? Perché la positività dell’esame tricologico eseguito nei capelli della vittima per verificare una assunzione pregressa è saltata fuori solo otto anni dopo? Perché non ne è mai stato notificato l’esito al legale dei Manca, Fabio Repici (successivamente affiancato dall’avvocato Antonio Ingroia), e ai familiari, come sostengono loro stessi? Quest’altro particolare è mai stato chiarito? Perché – in occasione del test tricologico – non è stata eseguita una dettagliata descrizione, centimetro per centimetro, del capello per riscontrare il periodo della presunta assunzione pregressa? Ma mettiamo che l’esame tricologico avesse dato davvero esito positivo: è una prova che dimostra una morte per “inoculazione volontaria” o un ulteriore elemento finalizzato a corroborare l’“apparenza”? Perché non è stata fatta un’analisi sul “materiale poltiglioso” (residuo di cibo) trovato negli intestini dell’urologo per stabilire cosa ha mangiato e dove potrebbe aver consumato l’ultimo pasto, dato che nel suo appartamento non sono stati trovati residui di cibo né stoviglie sporche? Da questo elemento non si sarebbero potute ricostruire le ultime ore di vita di Attilio Manca, che ancor oggi costituiscono un incredibile “buco nero” di questa indagine? Perché se il medico siciliano era un mancino puro, i buchi si sono trovati nel braccio sinistro? Perché il rilievo delle impronte digitali sulle siringhe è stato ordinato solo otto anni dopo? Perché malgrado l’assenza di tracce sulle siringhe – sia della vittima, sia di altri – si continua a parlare di “inoculazione volontaria” da parte dell’urologo?
Queste, Egregio Gip, solo soltanto alcune domande che sul caso Manca ci permettiamo di rivolgerLe, intanto sul piano scientifico. Ma se allarghiamo la vicenda al piano strettamente investigativo, vediamo tali e tante incongruenze da portare anche il lettore più ingenuo a dire che su questo fatto non si è voluto andare oltre le apparenze. Ci consenta qualche esempio.
2) Perché non sono state prese in considerazione le dichiarazioni convergenti di ben quattro collaboratori di giustizia, secondo i quali Attilio Manca è stato ucciso nel quadro delle cure effettuate in Italia (diagnosi e controlli) e dell’operazione di cancro alla prostata che nell’autunno 2003 Bernardo Provenzano (il boss della Trattativa Stato-mafia) subì a Marsiglia? Perché gli atti sul periodo di latitanza che Provenzano avrebbe trascorso nella città di Manca, Barcellona Pozzo di Gotto, malgrado un’inchiesta dei Ros, sono inopinatamente sparite? Perché non è stata messa in correlazione la morte di Attilio Manca, la presenza nella cittadina messinese di Provenzano e le protezioni di cui lo stesso boss avrebbe beneficiato in loco? Perché non è stato considerato il nome “pesante” pronunciato dal pentito Carmelo D’Amico, ex capomafia di Barcellona, il quale indica Rosario Pio Cattafi – avvocato, boss di prima grandezza e trait d’union tra l’ala militare di Cosa nostra, la massoneria e i servizi segreti deviati – come il mandante del delitto del giovane urologo? Cattafi non è uno qualsiasi. È un importante pezzo dello Stato deviato accusato dai magistrati di Palermo di essere stato uno dei mandanti esterni della strage di Capaci (caso poi archiviato) assieme a Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. È ritenuto il riciclatore del denaro sporco del clan di Nitto Santapaola (anche lui, guarda caso, latitante a Barcellona ai tempi dell’omicidio del giornalista Beppe Alfano, 1993). Perché escludere che Manca – all’epoca il primo urologo italiano ad operare il cancro alla prostata col sistema laparoscopico – possa essere stato coinvolto nelle cure di Provenzano? Perché tacere i collegamenti fortissimi (basti pensare che il telecomando della strage di Capaci è stato costruito nel centro tirrenico) fra la mafia barcellonese e la mafia corleonese? Perché escludere che il medico – come emerge dalle dichiarazioni dei pentiti – sia stato agganciato da Cosa nostra barcellonese per le cure di cui necessitava il boss della Trattativa? Perché escludere che sia stato ucciso quando si è verificata la “combinazione fatale” che lo avrebbe portato a scoprire la vera identità di Provenzano e la fitta rete che lo proteggeva? Perché nell’inchiesta di Viterbo, Barcellona scompare come epicentro “naturale” del fatto, e compare improvvisamente quando quattro ex amici della vittima e un cugino, tale Ugo Manca (pesantemente coinvolto nella vicenda, condannato in primo grado a dieci anni per traffico di droga ed assolto in Appello), dicono all’unisono che Attilio si faceva di eroina assieme a loro anche con la mano destra? Per comprenderlo bisogna capire cos’è quell’ambiente, quanto pesa il condizionamento della mafia, della massoneria e della politica, come questi soggetti siano perfettamente inseriti in questo contesto, ma basta anche vedere la puntata de “Le iene” e i rocamboleschi fuggi-fuggi di questi “testimoni chiave” (come sono stati definiti dagli inquirenti di Viterbo) davanti alle telecamere.
Le risulta, Egregia Dottoressa Tamburelli, che finora su Attilio Manca è stato accertato solo il consumo di qualche spinello ai tempi del liceo e null’altro? Perché questi “amici” – quando ancora non si parlava né di omicidio, né di Provenzano – hanno escluso categoricamente l’uso di stupefacenti da parte del medico e poi hanno affermato il contrario? Perché gli inquirenti non hanno mai ritenuto di metterli sotto torchio per chiarire quest’altra incredibile contraddizione? Perché non hanno cercato di verificare se Attilio Manca era davvero nel Sud della Francia – come asseriscono i familiari – nei giorni della presenza di Provenzano a Marsiglia? Perché l’ex capo della Squadra mobile di Viterbo, Salvatore Gava, ha scritto che in quei giorni Attilio era regolarmente al suo posto di lavoro (all’ospedale Belcolle di Viterbo), mentre la troupe della trasmissione “Chi l’ha visto” ha accertato esattamente il contrario? Perché la verifica compiuta dalla trasmissione di Federica Sciarelli non è stata mai smentita dagli interessati? Perché i genitori e il fratello di Attilio non sono mai stati ascoltati dalla Procura di Viterbo? Perché al processo “per droga” i familiari sono stati esclusi come parte civile?
A Lei, Egregio Gip di Roma, il compito di dirci se l’apparenza è tutto in uno Stato di diritto o se c’è ancora la possibilità di sperare nella verità e nella giustizia.
Luciano Mirone
La famiglia Manca e gli italiani sperano ancora nella GIUSTIZIA!!