L’autopsia eseguita dalla dottoressa Dalila Ranalletta sul corpo di Attilio Manca presenza vistosissime lacune, stessa cosa dicasi per l’esame tricologico e per buona parte dell’impalcatura investigativa messa su dalla Procura e dalla Squadra mobile di Viterbo. Insomma, i magistrati che indagano su uno dei casi italiani più clamorosi degli ultimi decenni – la morte dell’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto, Attilio Manca – vengono contestati in Commissione parlamentare antimafia nei giorni in cui questa inchiesta è a un passaggio delicato: la possibile apertura di un fascicolo “per mafia” da parte della Direzione distrettuale antimafia di Roma.
È quanto è emerso ieri a Palazzo San Macuto, sede dell’Antimafia nazionale, durante l’audizione del procuratore capo di Viterbo, Alberto Pazienti, e del Pm Renzo Petroselli, titolare delle indagini sul decesso del giovane medico siciliano.
Due ore di spiegazioni per ribadire le “certezze” espresse da Pazienti e Petroselli in questi undici anni sul conto di Attilio Manca: ovvero che era un drogato fin dai tempi del liceo (anche se è accertato che il chirurgo, in gioventù, fumava solo spinelli, e in età adulta non è per nulla dimostrato che fosse andato “oltre”), che è morto per “sua espressa volontà” iniettandosi un micidiale cocktail di eroina, di sedativo e di alcol (altra cosa non dimostrata); che non c’era alcun motivo per indagare sull’ipotesi del delitto mafioso; che non c’era alcuna possibilità di prendere le impronte digitali sulle siringhe ritrovate a pochi metri dal cadavere in quanto “troppo piccole”; che su Ugo Manca – cugino della vittima, nonché legato alla mafia barcellonese – di cui è stata trovata un’impronta palmare nell’appartamento di Attilio, non ci sono elementi per ritenerlo responsabile nella morte del medico (peccato che, avendo saputo della morte del cugino, Ugo si era precipitato a Viterbo per entrare in quell’appartamento attraverso una richiesta di dissequestro); che l’ipotesi che dietro a questo cadavere molto scomodo ci sia solo la droga e non l’operazione di cancro alla quale il boss Bernardo Provenzano si sottopose nel 2003 a Marsiglia, non è suffragata da elementi probatori (che però non solo stati cercati, e quelli che sono emersi sono stati semplicemente ignorati).
Tutto – secondo i magistrati laziali – è stato chiaro fin dalla mattina del 12 Febbraio 2004, quando Attilio Manca, in servizio da meno di due anni all’ospedale “Belcolle” di Viterbo, è stato trovato riverso sul letto con due buchi al braccio sinistro, una maschera di sangue, il naso deviato, le labbra gonfie e la sacca scrotale (come si vede dalle foto) contrassegnata da una ecchimosi che non sembra compatibile con una morte per overdose. Come non sembrano compatibili con un decesso per “inoculazione volontaria” quei due buchi al braccio sinistro: Attilio Manca era un mancino puro e, a detta dei colleghi e dei familiari, la mano destra la usava solo per guidare (per usare un’iperbole).
A smontare molte affermazioni dei magistrati è stato soprattutto il vice presidente dell’Antimafia Luigi Gaetti (medico specializzato in anatomia patologica, che ha studiato il caso dal punto di vista scientifico), secondo il quale, come detto, il lavoro del Medico legale che ha svolto l’autopsia presenta incredibili lacune. Per esempio, secondo Gaetti, non sono stati pesati gli organi estratti dal corpo di Attilio e non è stata misurata la temperatura dell’ambiente nel quale si trovava la vittima. Elementi, questi, che non solo avrebbero portato all’accertamento di diversi particolari utili per ricostruire la dinamica della morte, ma che dimostrerebbero l’approssimazione con la quale è stata eseguita l’autopsia.
Ma queste sono soltanto due delle numerose anomalie riscontrate dalla consultazione delle carte.
Contestazioni sono state mosse anche sull’esame tricologico (l’analisi sul capello della vittima finalizzata ad accertare un uso pregresso di sostanze stupefacenti). Il test sul capello di Attilio Manca – secondo i commissari dell’Antimafia – sarebbe stato effettuato sì, ma anche in questo caso seguendo una procedura non corretta. Innanzitutto perché il capello andrebbe sezionato centimetro per centimetro (dato che cresce di un centimetro al mese), in modo da individuare il periodo dell’eventuale assunzione. Invece, a parere dell’On. Gaetti, il tossicologo nominato dalla Procura (il prof. Fabio Centini dell’Università di Siena), si sarebbe limitato ad esaminare l’intera struttura capillifera, senza rispettare la procedura che si segue in casi del genere.
E poi c’è il “giallo” legato alla mancata notifica dell’esame tricologico “Abbiamo avuto contezza dello svolgimento di un presunto esame tricologico – dichiara l’avvocato Repici – solo otto anni dopo, in occasione di una conferenza stampa tenuta dal procuratore Pazienti e dal Pm Petroselli. Prima non ne sapevamo nulla. Una procedura assolutamente irrispettosa del Codice di procedura penale, quindi da considerare nulla. Per noi – taglia corto Repici – non esiste alcun esame tricologico”. Su questo punto Angela Manca, madre dell’urologo, è durissima: “Mi chiedo su quale capello abbiano effettuato l’esame tricologico, dato che non siamo mai stati informati”.
Ieri l’ex Pubblico ministero Antonio Ingroia (l’altro legale della famiglia Manca), ascoltato dalla Commissione antimafia, a proposito di questo caso, ha nuovamente parlato di “sciatteria giudiziaria”. Un concetto ribadito ieri dal deputato Francesco D’Uva, componente dell’Antimafia, che, a proposito del modus operandi di certa magistratura viterbese, ricorda il caso di Giovanni Musarò, uno dei Pm più impegnati della Dda di Reggio Calabria (oggi in servizio a Roma), che, secondo il collaboratore di giustizia Marcello Fondacaro, doveva saltare in aria per le inchieste giudiziarie che hanno decimato i clan della Piana di Gioia Tauro. Il dottor Musarò – recatosi nel 2012 nel carcere di Viterbo per interrogare Domenico Gallico, un mafioso calabrese condannato a sette ergastoli, – subì l’aggressione del boss, assieme a due agenti, finendo all’ospedale per la frattura del setto nasale e per diverse ferite riportate in tutto il corpo. Il fatto creò non poco scalpore: “Il magistrato calabrese – dice D’Uva – aveva chiesto espressamente di interrogare Gallico ammanettato e con una adeguata scorta. Glielo fecero trovate senza scorta e senza manette. La Procura di Viterbo contestò al capomafia una serie di reati lievi, ma non il tentato omicidio. Una circostanza, questa, su cui la presidente della Commissione antimafia Rosy Bindi ha sollevato non poche contestazioni.
“Pazienti e Petroselli – seguita l’on. D’Uva – mostrano di sconoscere del tutto il significato della parola mafia. Sul caso Musarò, non solo non hanno tenuto conto del tentato omicidio di un magistrato che ha fatto arrestare il clan dei Gallico, ma non hanno trasmesso le carte dell’accaduto alla Dda di Roma. La verità è che questi signori non ritengono quasi mai che esista un movente mafioso”.
Il Caso Manca, dunque, potrebbe essere inserito in un contesto investigativo in cui la parola mafia rappresenta un tabù. A tal proposito esistono numerose denunce da parte di una ventina di imprenditori viterbesi che puntano il dito contro la Procura, colpevole, a loro dire, di non indagare su diversi fatti che vedono i clan camorristici spadroneggiare su molte attività economiche di quel territorio.
Una cosa è sicura: “L’intera Commissione antimafia – prosegue D’Uva – non apprezza il modo di lavorare della Procura di Viterbo”.
Adesso la palla passa alla Dda di Roma, diretta dal magistrato che ha scoperchiato la pentola sullo scandalo di “Roma Capitale”, quel Giuseppe Pignatone al quale due giorni fa Angela e Gianluca Manca (madre e fratello di Attilio), assistiti dai loro legali, hanno presentato un esposto-denuncia di undici pagine in cui raccontano l’intera vicenda.
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