Là dove c’erano le montagne e le colline piene di pini e attraversate da torrenti e fiumi che si perdevano fino alla bellissima città di Genova, tutto aveva un senso perché tutto aveva un’armonia. Allora avevamo un rispetto primordiale verso la natura, dalla quale ci difendevamo quando gli eventi erano avversi, e una gratitudine immensa quando la terra, il mare e l’acqua offrivano i frutti desiderati.
Quando con l’avvento del boom, il denaro diventò Dio e Dio un’entità come tante, facemmo come tutti i popoli miserabili della terra che (non solo a Genova), in nome dei soldi rinnegano chi sono e da dove vengono: pensammo di piegare la natura a nostro suo uso e consumo, tagliammo le foreste, spianammo i pendii, disegnammo piani regolatori pazzeschi, nei quali l’irregolarità diventava la regola.
E facemmo della nuova Genova – delle montagne, delle colline, dei fiumi intorno – una delle città più orrende d’Italia, con quei palazzoni costruiti sulle montagne, sulle colline e sui corsi d’acqua, che si perdevano a vista d’occhio, con strade, rotonde, supermercati, uffici, banche, scuole che hanno fatto di questa città uno scandalo a cielo aperto, di cui si è preferito parlare poco, perché, forse, rappresentava uno dei più clamorosi modello di sviluppo da cui prendere esempio.
A un certo punto, fra quelle montagne cementificate, si pensò bene di costruire un ponte, ovviamente fra i più avveniristici del pianeta: era necessario per collegare il levante al ponente e viceversa, ma in nome delle magnifiche sorti e progressive di vittoriniana memoria poteva anche starci.
Passava sopra le case, anzi, in certi casi era addirittura poggiato alle case. Ma niente paura. Era stato edificato con un materiale fragile, oltre che brutto: il cemento. Che ha una media di vita di circa cinquant’anni. E questo, in un Paese come l’Italia (dove la manutenzione non porta voti e quindi non si fa), significa crollo sicuro. Ma all’epoca – eravamo fra il 1964 e il 1967 – nessuno poteva prevederlo, anzi, a ben pensarci, il progettista Riccardo Morandi – uno dei più grandi architetti dell’epoca – lo disse: la struttura necessita di costante controllo. Infatti…
I sussulti si cominciarono a sentire subito, ma si pensò ad un fisiologico tremolio della struttura. La verità è che i soldi del boom ci avevano talmente ubriacato che avevamo perso la testa. Ormai i figli dei contadini, dei pescatori, degli operai, degli artigiani avevano riscattato, come era giusto che fosse, la condizione di indigenza causata dalle devastazioni della seconda guerra mondiale, e cominciarono ad indossare il doppiopetto e la cravatta, dimenticarono e si adeguarono al consumismo. In caso contrario, al cospetto di quell’osceno modello di sviluppo, sarebbe scoppiata la rivoluzione. Invece non successe nulla. A Genova come altrove.
Perché Genova – con quel ponte crollato e quelle case che lo sostengono e quelle montagne allagate di cemento – è la metafora di un Paese che nello stesso periodo viveva altre follie: luoghi bellissimi come Marghera, come Augusta, come Milazzo viveva la follia del petrolchimico; Taranto la follia dell’Ilva; Gioia Tauro della siderurgia; Gela del cemento (imbastardita col petrolchimico) e così via.
Avevamo perso la testa e ci credevamo l’America. Basta dire che il Morandi lo avevamo battezzato il ponte di Brooklyn, forse perché ci somigliava un po’. Solo che a Genova lo hanno costruito negli anni Sessanta ed è crollato, negli Stati Uniti lo hanno costruito nel 1883, ma è ancora lì. Gli scienziati dicono che quello di Brooklyn è stato costruito in acciaio e viene costantemente monitorato, al contrario di quelli costruiti nel nostro Belpaese.
In Italia, dove siamo più intelligenti perché vogliamo ottenere sempre il massimo risultato (vedi i bilanci della società Autostrade) col minimo sforzo, i ponti ci cadono sulla testa, assieme alle montagne, alle scuole, alle dighe, che non riusciamo neanche a tenere in sicurezza. In compenso parliamo ancora di ponte sullo Stretto.
Luciano Mirone
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