“Un omaggio a Leonardo Sciascia”. E’ quello che hanno fatto Elisabetta Masso e Carla Reschia in questo bel romanzo, Il limonaio (Algra editore), ispirato a una storia vera e a un personaggio (il protagonista, il tenente dei carabinieri Filippo Cardone) realmente vissuto, un personaggio che somiglia tanto al capitano Bellodi de Il giorno della civetta, romanzo dello scrittore siciliano che registrò un grande successo di critica e di vendite: entrambi giovani, entrambi dell’Arma, entrambi belli, entrambi del “Continente”, entrambi in servizio nella Sicilia degli anni Sessanta. Con una differenza: Bellodi, pur arrestando un boss intoccabile come don Mariano, opera in un ambiente irredimibile; Cardone lavora in un contesto – come si legge nella quarta di copertina – “sospeso tra tradizione e modernità”. Il romanzo si legge tutto d’un fiato perché racconta “la storia di un’indagine”, ma anche “la presa di coscienza e la crescita interiore” di questo giovane ufficiale dell’Arma “alla sua prima esperienza di comando in quella meravigliosa cittadina della Sicilia (Carini, in provincia di Palermo, inizialmente ostile e poi molto amata), che porterà sempre nel cuore tra i ricordi più belli della sua lunga carriera”. “Un luogo difficile da decifrare – scrivono Elisabetta Masso e Carla Reschia – per un delitto che sconvolge l’equilibrio di una comunità apparentemente coesa e per un carabiniere che arriva da fuori e che stenta a comprenderne i meccanismi”.
Quello che segue un capitolo del libro.
Mannaggia che caldo! Avevano appena scavallato la metà di giugno e la Sicilia era già un inferno. Per l’afa non cantavano nemmeno i passeri sui rami; fin dall’alba nei campi e per le strade di Carini l’aria gravava ferma e pesante, quasi solida, come una coperta umida che cercasse qualcosa su cui appiccicarsi. La notte, invece di mitigare l’oppressione della giornata e portare sollievo, aggiungeva l’umido salmastro che arrivava a folate dal mare. Era come vivere in una nuvola opaca, in una foschia che annebbiava i colori e confondeva la linea dell’orizzonte e i pensieri. Il tenente Filippo Cardone sospirò, si passò una mano sudata sui capelli a spazzola e poi si diede un’occhiata di sfuggita nel riflesso della finestra per controllare se si era spettinato. Si guardava spesso, nei vetri, negli specchi, persino nelle fontane. era ingenuamente vanesio Cardone, ma senza presunzione né arroganza, con la tranquilla sicurezza di chi si è sempre sentito lodare per il proprio aspetto e sa che può contarci e ne è felice. Così, controllati i capelli, cortissimi come da regolamento, ma neri e ricci, disciplinati da un filo di brillantina, si soffermò a contemplare con un certo compiacimento il naso dritto, i lineamenti regolari, la fronte alta, la mascella squadrata. Tutto in ordine, pensò, facendosi un bel sorriso. A parte, certo, le profonde occhiaie che gli cerchiavano gli occhi. Grandi e azzurri, erano la sua vera bellezza, diceva sempre sua madre. Così pesti però sua madre non li aveva mai visti. D’altra parte, se non si dorme… 11 A quell’ora lui desiderava soltanto una cosa, non riusciva quasi a pensare ad altro: andarsene da quell’ufficio arroventato e mettersi in mutande davanti alla finestra spalancata, chissà mai entrasse un filo d’aria fresca.
La giornata – come ogni giornata ultimamente – se ne era andata in un sudarsi addosso, alle prese con scartoffie da firmare, decisioni da prendere, ordini da impartire, conversazioni noiose a cui tuttavia era impossibile sottrarsi. Ora che il sole era scomparso dietro la gobba della collina, avrebbe potuto – finalmente! – levarsi l’uniforme, farsi una doccia e godersi il ventilatore, unico lusso del suo spartanissimo alloggio nel sottotetto. Non che l’apparecchio ventilasse molto, più che altro si limitava a smuovere appena l’aria da una parte all’altra, e anche quello lo faceva con qualche difficoltà perché spesso si prendeva una pausa e si fermava di botto. Allora era necessario riavviarlo, allungandogli un calcio o dandogli una manata. In genere bastava per rimetterlo in funzione, ogni volta un po’ più traballante. Però, almeno starsene lì, in pace, un bicchiere con qualcosa di fresco da bere a portata di mano e la compagnia dei propri pensieri. Anche se a dirla tutta, tenersi occupato era un’ottima scusa, invece, per non pensare troppo. A Giuseppina, ad esempio, e alla lettera che avrebbe dovuto scriverle. Da settimane ormai, o da mesi piuttosto, e che continuava a comporre nella sua mente senza mai decidersi a metterla su carta e a mandarla incontro al suo destino. Invece… Invece un mortammazzato. Il suono del telefono, un suono minaccioso, intempestivo, che prometteva disgrazie, ruppe la quiete del crepuscolo. Trillò a lungo a vuoto, perché Cardone d’impulso decise di non rispondere. Sperava che smettesse, che si stancassero. Era tardi, non voleva seccature, ti prego, non proprio quella sera, era così stanco. 12 Alla fine fu il brigadiere Angelo Santi, con lo zelo canino che lo distingueva, a precipitarsi a sollevare la cornetta. Era un uomo grigio e grassoccio dai movimenti lenti, carico di anni e prossimo alla pensione, eppure sempre attento, presente. Pure troppo presente, pensava spesso Cardone. Non potevi fare un passo che te lo ritrovavi davanti. Un bisbiglio soffocato, cavernoso, come se arrivasse dal fondo di un pozzo, annunciò: “Venite, c’è un mortammazzato”, e indicò, brevemente, dove. Santi restò in attesa del resto, trattenendo il respiro, ma sentì solo il clic del microfono riagganciato. Era tutta lì la segnalazione, spiegò a Cardone che lo guardava attento per non farsi sfuggire nemmeno una parola. Chi aveva chiamato, disse, cercava di camuffare la voce e di risparmiare parole, come se temesse di essere riconosciuto. E c’era riuscito tanto bene, aggiunse, che era difficile distinguere se il cristiano dall’altra parte del filo fosse masculo o femmina. Il luogo dove era stato ritrovato il cadavere – almeno quello – era stato indicato con precisione, ed era proprio dietro piazza Duomo. Filippo si scosse e si alzò di scatto, infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, tirò fuori prima un fazzoletto per asciugarsi la faccia e il collo e subito dopo una sigaretta che accese immediatamente, inalando una lunga boccata. Addio alla sua serata di quiete. Un omicidio. Era in apprensione. No, era preoccupato. No, era nel panico. S’infilò lesto il berretto. Non aveva idea di come affrontare un omicidio. Sapeva solo che doveva muoversi e che doveva farlo in fretta.
Elisabetta Masso – Carla Reschia
Grazie. Elisabetta