La denigrazione non basta. Per insabbiarlo è necessario il silenzio. Un silenzio che avvolge il caso di Attilio Manca e scorre lungo l’asse Viterbo-Marsiglia-Barcellona Pozzo di Gotto, con un tassello mancante che potrebbe avere un nome: Bernardo Provenzano. Potrebbe… ma non ci sono prove. Non perché non esistano gli elementi su cui indagare, ma perché ogni volta che affiora un collegamento sulla trattativa Stato-mafia o sulla protezione occulta e istituzionale di cui “Binnu” avrebbe beneficiato anche a Barcellona Pozzo di Gotto (città di Attilio Manca), il mare del silenzio inghiotte ogni cosa. Del resto, lo stesso collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico, recentemente lo ha confermato: “Provenzano durante la latitanza era protetto dal Ros e dai servizi segreti”.
Da undici anni c’è gente che quando si parla di questo argomento, o cambia discorso o usa il sarcasmo: “La morte di Attilio Manca? Non c’entra nulla con Provenzano”.
Sarà. Ma intanto qualcuno dovrebbe spiegare perché, dopo undici anni alla morte dell’urologo barcellonese, la magistratura, l’ex capo della Squadra mobile di Viterbo Salvatore Gava, il medico legale Dalila Ranalletta, che ha effettuato l’autopsia sul corpo di Manca, hanno assunto un atteggiamento talmente omissivo da indurre la Commissione parlamentare antimafia ad aprire un’inchiesta su questa storia.
LA LATITANZA DI PROVENZANO
Strano che degli organi dello Stato, anche col silenzio, si espongano così tanto per un banale suicidio per overdose. Significativo che per la prima volta, dopo undici anni, il procuratore di Viterbo, Alberto Pazienti, e il Pm Renzo Petroselli, in Commissione Antimafia abbiano ammesso i “buchi neri” presenti nell’autopsia e addirittura l’incompetenza dello stesso Medico legale. E quando un esame autoptico presenta dei “buchi neri”, indirettamente si conferma la tesi di un oggettivo depistaggio.
Qualcuno dovrebbe spiegare perché il rapporto dei Carabinieri sulla latitanza a Barcellona Pozzo di Gotto del boss corleonese non si trova, malgrado un numero di protocollo, una data e delle firme di autorevoli ufficiali dell’Arma. Quel rapporto parla della presenza di “Binnu” nel convento di Sant’Antonino della città tirrenica, dove all’improvviso sono stati trasferiti cinque frati e dove ogni parete è stata ritinteggiata da cima a fondo dopo il presunto passaggio del capomafia.
Qualcuno dovrebbe spiegare se è vero che dopo la morte di Attilio Manca un personaggio di alto livello – avendo saputo che si indagava sul presunto intreccio fra il decesso dell’urologo e la latitanza di Provenzano – ha chiesto urgentemente il fascicolo, che successivamente sarebbe stato inghiottito dalle sabbie mobili di certi palazzi.
Qualcuno dovrebbe spiegare perché diversi collaboratori di giustizia confermano che la morte dell’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto – primo chirurgo in Italia, a soli 34 anni, ad operare il cancro alla prostata col sistema laparoscopico – sia legata all’operazione che Provenzano subì a Marsiglia nell’autunno del 2003.
LA SVOLTA DEI PENTITI
Ci sono collaboratori di giustizia che sul caso Manca stanno cominciando a parlare, ma è come se anche queste dichiarazioni vengano risucchiate dal vortice del silenzio. Parla l’ex boss del clan dei Casalesi, Giuseppe Setola, secondo cui Attilio Manca sarebbe stato ucciso perché – avendo assistito Provenzano per la diagnosi, per le cure e forse per l’operazione – avrebbe riconosciuto non solo la vera identità del boss protetto per quarant’anni dallo Stato (celatosi sotto il falso nome di Gaspare Troia al momento dell’operazione a Marsiglia), ma anche il volto di certi personaggi delle istituzioni che lo avrebbero nascosto. Trapelata la notizia, Setola ha ritrattato tutto: “Temo per la vita della mia famiglia che ha rifiutato il piano di protezione e ha continuato a risiedere a Casal di Principe”. Il pentito, in effetti, anche prima di parlare dell’urologo barcellonese, aveva dato strani segni di paranoia. Ma le sue dichiarazioni sono state riscontare per accertare se sono vere?
Anche perché qualcuno dovrebbe rispondere a una domanda semplicissima: è vero che Setola – come ha dichiarato alcuni mesi fa l’ex magistrato Antonio Ingroia, oggi legale dei Manca – ha appreso queste notizie dal boss di Barcellona Pozzo di Gotto, Giuseppe Gullotti, secondo la Cassazione mandante del delitto del giornalista Beppe Alfano, con collegamenti con i servizi segreti deviati, certa politica e certa magistratura? Giuseppe Gullotti, per la cronaca, è la persona che nel 1992 recapitò il telecomando per la strage di Capaci a Giovanni Brusca, uno strumento sofisticato costruito da gente molto esperta nell’uso di esplosivi. Sarebbe interessante sapere se davvero Setola sia stato il depositario dei presunti segreti di Gullotti in merito alla morte di Attilio Manca.
Parla il collaboratore Stefano Lo Verso – un pentito definito “molto attendibile”, ex braccio destro di Provenzano – il quale, nello scorso gennaio, nell’ambito del processo Borsellino quater, ha fatto intendere di conoscere retroscena molto inquietanti sulla morte dell’urologo siciliano: “Provenzano – dice sibillinamente Lo Verso – in macchina mi diede una Madonnina con il Bambino Gesù in braccio… Sicuramente Provenzano sarà stato in quel luogo, in un luogo religioso, e mi ha portato questo pensierino. Madonnina che io ancora tengo conservata”. E fin qui, diciamo che si tratta di un passaggio interlocutorio della deposizione. Ma solo in apparenza. Nella sostanza, il linguaggio di Lo Verso – allegorico, come è nello stile di Cosa nostra – va interpretato. Il boss parla di “luogo religioso” dove Provenzano si sarebbe nascosto durante la latitanza. Quale? Non lo sappiamo, ma è significativo il fatto che questo “luogo” – nella dichiarazione successiva – venga associato ad Attilio Manca. Attraverso “questa Madonnina” – aggiunge Lo Verso – si possono fare delle indagini “utili per riaprire il caso dell’urologo Manca”. Quindi, alla fine del suo intervento, il pentito aggiunge: “Io tengo tutto conservato per potere fare luce su questo evento”. Le affermazioni di Lo Verso sono fondamentali per almeno tre motivi: 1) Il collaboratore di giustizia mette in relazione il “luogo sacro” visitato da Provenzano col “caso dell’urologo Manca”; 2) Per la seconda volta un uomo d’onore di prima grandezza (dopo Giuseppe Setola) dice che Attilio Manca è vittima di mafia, confermando il parallelismo con Provenzano e smentendo i magistrati di Viterbo; 3) Lo Verso su questa vicenda ha dimostrato disponibilità a collaborare.
E poi ci sono le dichiarazioni dello stesso Carmelo D’Amico, ex boss di Barcellona, il quale al processo “Gotha 3”, oltre ad aver confermato che il giornalista Beppe Alfano è stato ucciso perché aveva scoperto il covo di Santapaola a Barcellona (come vedremo successivamente), ha sostenuto che il senatore barcellonese Domenico Nania è a capo di una super loggia segreta in grado di condizionare la vita politica della Sicilia e della Calabria. “Ne facevano parte – ha detto – anche Cattafi, Dell’Utri, e altri uomini d’onore”. A un certo punto D’Amico afferma: “Dietro a certi omicidi-suicidi c’è la mano dei servizi segreti deviati”. Di quali omicidi-suicidi si tratta non è dato sapere, ma non sarebbe male indagare anche sull’“impiccagione” in carcere di Ciccio Pastoia, avvenuta, guarda caso, in seguito al riferimento dello stesso Pastoia (intercettato dalle “ambientali”) ad un “medico che ha curato Provenzano”. Sarebbe interessante sapere di chi si tratta.
IL TRIO CASSATA-NANIA-CATTAFI
Qualcuno dovrebbe spiegare perché un altro boss di Stato come Nitto Santapaola ha trascorso parte della sua latitanza a Barcellona, dedito all’organizzazione di riunioni di alta massoneria e di qualche omicidio eccellente. Certo, ad assumersi la responsabilità del delitto Alfano – come detto – è stato il referente di Cosa nostra barcellonese Giuseppe Gullotti, ma è un omicidio che per stile e per modalità ricorda quello del giornalista catanese Giuseppe Fava, fatto ammazzare proprio da Santapaola il 5 Gennaio 1984 per interessi e per conto di personaggi molto più in alto.
Qualcuno dovrebbe spiegare perché, una settimana dopo la morte di Attilio Manca (avvenuta a Viterbo l’11 Febbraio 2004), quando ancora tutti erano convinti che Attilio Manca fosse morto per overdose di eroina, tale Vittorio Coppolino, padre di Lelio Coppolino (il migliore amico barcellonese di Attilio) e componente del circolo paramassonico “Corda fratres”, ai genitori del medico (secondo quanto gli stessi dichiarano) confidi delle cose interessanti: “Siete sicuri che Attilio si sia suicidato? Non pensate che sia stato ucciso? Non pensate che l’omicidio sia stato commesso nell’ambito dell’operazione di Bernardo Provenzano?”.
Qualcuno dovrebbe spiegare da chi questo signore avrebbe appreso un particolare così clamoroso, se nessuno in quel momento – né magistrati, né esponenti delle Forze dell’ordine – sapeva della trasferta del latitante Provenzano in terra francese per motivi di salute. Qualcuno dovrebbe spiegare perché il signor Coppolino non è mai stato messo sotto torchio dai magistrati di Viterbo, e perché il figlio Lelio non è mai stato sentito sul medesimo argomento, magari per accertare se questa confidenza l’ha davvero ricevuta da Attilio. Così come non sarebbe male spiegare a chi, Lelio, successivamente – qualora fosse stato davvero depositario di quel segreto – potrebbe aver rivelato la notizia. Lelio è stato sentito dagli inquirenti dopo la morte di Attilio, sì, ma soltanto sulla presunta tossicodipendenza dell’amico. E lui ha categoricamente smentito. Salvo a ritrattare – con la serafica “presa d’atto” dei magistrati viterbesi – quando la famiglia Manca ha cominciato a tuonare contro Provenzano e la mafia barcellonese.
Qualcuno dovrebbe spiegare cosa ci facevano dentro la “Corda fratres” individui come Giuseppe Gullotti e Rosario Pio Cattafi – quest’ultimo avvocato e alter ego di Nitto Santapaola, entrambi in stretti contatti con i servizi segreti deviati e detenuti al 41 bis – con un alto magistrato come Antonio Franco Cassata, fino al 2011 procuratore generale della Repubblica di Messina, e con l’ex vice presidente del Senato Domenico Nania. È un caso che Cassata, Cattafi e Nania siano ritenuti amici per la pelle? Ebbene, qualcuno potrebbe spiegare fino a che punto si sia spinta questa “amicizia” e per quali eventuali fini?
Già, perché se qualcuno pensa che la “Corda fratres” sia un circolo di buontemponi dediti solamente al gioco delle carte si sbaglia. Secondo la Guardia di Finanza è un “circolo parassonico”, dove personaggi di primissimo piano della magistratura e della politica convivono con un partecipante “indiretto” alla strage di Capaci (Gullotti) e con un boss (Cattafi) ritenuto dai magistrati, in un primo momento, uno dei mandanti occulti della stessa strage (posizione successivamente archiviata, assieme a quella di Silvio Berlusconi e di Marcello Dell’Utri), definito comunque dai giudici messinesi un “personaggio socialmente pericoloso”, ma non a Barcellona dove l’ex sindaco Candeloro Nania – cugino di Domenico – per diversi anni gli ha messo a disposizione un autista del Comune e il Consiglio comunale ha deciso di costruire un centro commerciale sui terreni di famiglia.
Lo stesso Mimmo Nania, molti anni fa, non ebbe problemi a candidare nelle liste del Movimento sociale italiano proprio Gullotti, causando le vibrate proteste di Beppe Alfano – militante in quel partito – che si rivolse addirittura all’ex segretario del Msi Giorgio Almirante per prendere provvedimenti. Niente da fare: Gullotti candidato, Alfano espulso dal partito. E la stella di Nania che da allora cominciò a splendere nel firmamento della politica nazionale, fino alla vice presidenza del Senato. Mentre nel corso degli anni, il Consiglio comunale di Barcellona si riempiva di gente collusa con Cosa nostra, legata proprio a Nania.
IL RUOLO DI CASSATA
E che dire di Antonio Franco Cassata, le cui amicizie con i mafiosi di Barcellona – città dipendente da Messina dal punto di vista giudiziario, ma dove il magistrato risiede da sempre – sono talmente evidenti da rasentare lo scandalo? Uno scandalo che viene centrato in pieno, quando nel 2008 il Csm, malgrado le interrogazioni parlamentari contro il magistrato, lo nomina Procuratore generale della Corte d’Appello di Messina. E che dire del figlio Nello, avvocato, nei confronti del quale il padre non ha mai ritenuto di prendere le distanze, magari chiedendo un trasferimento a mille chilometri di distanza? Che dire del rampollo di casa Cassata, ritenuto dai magistrati di Reggio Calabria il punto di snodo di un’organizzazione formata da Colletti bianchi e mafiosi di Barcellona, dedita a una colossale truffa alle assicurazioni che avrebbe fruttato centinaia di milioni di Euro? Che dire di Cassata junior che da presidente di un istituto di beneficenza (Ipab) prorogava la locazione di terreni e appartamenti a mafiosi come Domenico Tramontana – grande elettore di Bartolo Cipriano, ex sindaco e parlamentare di Terme Vigliatore (sia di destra che di sinistra) – o come i fratelli Calderone, o come Aurelio Salvo, “al tempo pregiudicato – scrive in una interrogazione il senatore del Pd, Beppe Lumia – per favoreggiamento aggravato nei confronti di Giuseppe Gullotti e di Nitto Santapaola”, nel senso che in un appartamento di Aurelio Salvo, il 16 aprile 1995, le Forze di polizia individuavano il covo di Gullotti, all’epoca ricercato per il delitto Alfano, e in una villa di Terme Vigliatore rinvenivano il nascondiglio di Nitto Santapaola? Il senatore Beppe Lumia nella stessa interrogazione chiede “se il Governo non ritenga che il ruolo esercitato dall’avvocato Nello Cassata quale presidente dell’Ipab imponga la segnalazione al Consiglio superiore della magistratura della posizione di incompatibilità ambientale dell’attuale Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Messina, dottor Franco Antonio Cassata”. Silenzio. Un silenzio assordante che suscita un paio di domande: da chi e perché è stato protetto per tanti anni l’ex procuratore generale della Corte d’Appello di Messina? Perché il neo sindaco di Barcellona Pozzo di Gotto, Roberto Materia, vinte le elezioni, ha ritenuto di omaggiare Cassata (ormai in pensione) con la prima visita ufficiale? Qual è ancora il ruolo dell’ex procuratore?
UGO MANCA A VITERBO
Qualcuno dovrebbe spiegare perché, nell’inchiesta di Viterbo, una figura come Ugo Manca – cugino della vittima – sia stata ridotta al rango di una semplice comparsa, malgrado il suo ruolo di primo piano. Nell’appartamento viterbese di Attilio – dopo il ritrovamento del cadavere – la Polizia scientifica ha rinvenuto una impronta palmare di Ugo. Che però sostiene di averla lasciata circa un mese e mezzo prima, ospite di Attilio che in ospedale lo avrebbe operato di varicocele. Appare strano che un’operazione così banale, Ugo, non abbia deciso di farla in Sicilia, dove lavora come tecnico radiologo. Lui invece decide di farla a Viterbo. Dal cugino. Che lui stesso ha accusato di essere un drogato, recitando lo stesso copione di Lelio Coppolino e di altri “amici” che appartengono al giro della “Corda fratres”.
I magistrati laziali, ovviamente, hanno creduto ai Barcellonesi e ignorato fior di primari, di colleghi, di capi sala e di infermieri che hanno affermato il contrario.
Del resto, meglio credere a Ugo Manca, condannato in primo grado a quasi dieci anni di reclusione al processo “Mare nostrum” per traffico di stupefacenti, che andar dietro a degli stimati professionisti. Anche perché, alla fine, Ugo, in quel processo, è stato assolto in Appello. Se la Procura generale – dove al tempo c’era Cassata – non ha presentato ricorso in Cassazione non importa. Ugo Manca è stato assolto, quindi Ugo Manca è una persona rispettabile sia a Barcellona che a Viterbo. Chissenefrega se risulta organico alla mafia barcellonese, se è amico stretto di Antonino Merlino, killer di Beppe Alfano (secondo la Cassazione) e della “triade” Cassata-Nania-Cattafi? Chissenefrega se Ugo – quando viene a sapere della morte del cugino – si precipita a Viterbo perché deve entrare a tutti i costi nell’appartamento di Attilio, in quel momento posto sotto sequestro. Il perché non si è mai saputo, né i magistrati laziali se lo sono mai posto, ma intanto Ugo si muove come uno che deve agire con urgenza. E per fare dissequestrare l’alloggio – richiesta che possono fare solo i familiari più stretti come i genitori o i fratelli – telefona a Gianluca, fratello della vittima: “Devo prendere un vestito di Attilio, voglio essere io a vestire la salma. Ai tuoi genitori non devi parlare di questa richiesta”. Riceve un rifiuto categorico. A quel punto Ugo rompe gli indugi e si reca direttamente in Procura. In Procura, ovviamente, non possono accontentarlo, ma invece di mettere sotto torchio anche lui, crederanno alla sue storie, mezza paginetta di verbale di sommarie informazioni, e tante-scuse-per-il-disturbo.
Qualcuno dovrebbe spiegare l’incrocio telefonico di Ugo Manca nei giorni che precedono e che seguono la morte dell’urologo. Qualcuno dovrebbe dire perché certi tabulati telefonici che hanno come perno proprio lui, ma che, secondo quanto dice l’avvocato Fabio Repici – altro legale dei Manca – si diramano verso direzioni “interessanti”, non sono stati richiesti da Viterbo presso il Palazzo di giustizia di Messina, dove da molti anni si trovano chiusi in un cassetto. Sì, perché in questa vicenda, Ugo Manca è il perfetto “trait d’union” fra una strana morte per overdose e un contesto eversivo dove si sono consumate almeno tre “trattative”: le latitanze di Santapaola e di Provenzano, e la costruzione del telecomando per la strage di Capaci.
LE TELEFONATE MANCANTI
Qualcuno dovrebbe far luce su due profondi “buchi neri” presenti, fra gli altri, nell’inchiesta sulla morte dell’urologo. Perché la Procura di Viterbo – benché sollecitata dalla famiglia della vittima – non ha ritenuto di indagare sul traffico telefonico di Attilio Manca relativo all’11 febbraio 2004, data in cui la madre dell’urologo – e non solo – giura di averlo sentito per l’ultima volta? Attraverso quella traccia, ritenuta determinante dai familiari, si sarebbe potuto scoprire il luogo della telefonata e ricostruire le ultime ore di vita di Attilio.
“In un primo momento – dicono i Manca – la Squadra mobile confermò che l’ultima chiamata era avvenuta l’11 febbraio, poi smentì tutto parlando del 10”. Resta il fatto, in ogni caso, che i magistrati viterbesi non abbiano mai voluto richiedere quei tabulati alle compagnie telefoniche. E per legge, dopo cinque anni, questi documenti devono essere distrutti. Quindi non sapremo mai se questa telefonata sia esistita davvero o no.
Ma c’è un’altra telefonata molto inquietante su cui gli inquirenti laziali si sono ostinati a non fare chiarezza. Risale all’autunno 2003, periodo dell’operazione di Provenzano in Francia. Attilio telefona alla famiglia: “Sono nel Sud della Francia, devo vedere un’operazione”. A quale luogo e a quale operazione si riferisce l’urologo? Nessuna risposta dagli inquirenti.
In compenso, l’allora capo della Squadra mobile di Viterbo, Salvatore Gava (che aveva avuto modo di mettersi in evidenza tre anni prima, in occasione del G8 di Genova, redigendo un rapporto falso – secondo la Cassazione – contro i No Global pestati nella scuola Diaz di Bolzaneto) scrive che nel periodo dell’operazione di Provenzano a Marsiglia, Attilio non si mai è mosso dall’ospedale “Belcolle” di Viterbo. Peccato che la trasmissione “Chi l’ha visto” – consultando il registro delle presenze – lo abbia smentito clamorosamente, scoprendo che proprio nei giorni in cui il boss era “sotto i ferri” in terra francese, Attilio Manca risulta assente da quell’ospedale. E allora come la mettiamo? Chi sta barando?
Qualcuno dovrebbe spiegare perché in un Paese dove quotidianamente la televisione e i giornali ci raccontano i particolari più demenziali sulle pulsioni omicide di un sacco di gente paranoica, da Cogne a Brembate passando per Ragusa, la storia di Attilio Manca – sicuramente non meno appassionante di queste, perché paradigmatica del perverso rapporto fra Stato e mafia – non trova posto. O meglio trova posto “una tantum” da Santoro o a “Chi l’ha visto”, ma non in quelle trasmissioni che tengono costantemente viva l’attenzione dell’opinione pubblica.
IL SILENZIO DI “CHI L’HA VISTO”
E però stupisce che un programma come “Chi l’ha visto” – che per alcuni anni ha seguito il caso Manca – dal gennaio 2014 abbia spento improvvisamente i riflettori sulla vicenda. Stupisce che questo sia successo dopo lo scoop di Paolo Fattori e di Goffredo De Pascale, che ha fatto emergere un presunto depistaggio mai smentito dagli inquirenti. Perché il programma di RaiTre, abituato a tornare sempre “sul luogo del delitto” (specialmente dopo uno scoop), improvvisamente fa marcia indietro?
Non lo sappiamo, ma lo registriamo. Così come registriamo il silenzio dell’intera TV di Stato, della TV berlusconiana (che ha promosso “sul campo” il medico legale Dalila Ranalletta come consulente, autrice della “lacunosissima” autopsia sul corpo di Attilio Manca, diventata nel giro di pochi anni direttrice dell’Asp1 di Roma); dei Colletti bianchi di Barcellona Pozzo di Gotto, che su questa storia sono stati attaccati pesantemente dall’opinione pubblica e dalla stampa non allineata, senza una minima reazione.
Qualcuno dovrebbe spiegare il ruolo dell’ospedale “Belcolle” nel corso di questi anni, dato che si tratta della prima struttura italiana ad ospitare – dall’inizio del nuovo millennio – i detenuti in regime di 41 bis. Chi è stato ricoverato – nel periodo in cui Attilio Manca prestava servizio a Viterbo – nell’ala riservata ai mafiosi che stavano scontando il carcere duro per mafia? È importante accertarlo perché il procuratore laziale Alberto Pazienti, nel corso di una conferenza stampa, ha dichiarato: “Ugo Manca era di casa a Viterbo ed era il punto di riferimento dei Barcellonesi che si dovevano curare al ‘Belcolle”. Senza aggiungere altro. Sappiamo però due cose: che mentre Attilio Manca era vivo, il boss barcellonese Sem Di Salvo (vice di Gullotti) stava scontando la sua pena proprio nel carcere di Viterbo; e che almeno un “boss di spicco” di Barcellona (secondo gli atti processuali) è stato segnalato ad Attilio Manca dal cugino Ugo: si tratta di Angelo Porcino, sulla cui presenza nella città laziale, nei giorni che hanno preceduto la morte dell’urologo, non si è indagato per nulla. Addirittura la Procura non è stata in grado di risalire ai suoi numeri di telefono.
Qualcuno dovrebbe spiegare il ruolo di Monica Mileti, la presunta spacciatrice romana oggi sotto processo, la quale, secondo i magistrati e la Polizia di Viterbo, avrebbe ceduto ad Attilio Manca la dose letale di eroina. È davvero così? Sono stati accertati i collegamenti fra la donna e gli “amici” barcellonesi del giro della “Corda fratres”? Di che tipo di collegamenti si tratta?
A tutte queste domande mai nessuno ha dato una risposta per il semplice fatto che l’inchiesta sul “suicidio” di Attilio Manca è rimasta impantanata per ben undici anni in una Procura che col pretesto di operare in un centro “tranquillo” come Viterbo, a volte si ritiene esente dall’indagare seriamente sulla pericolosa espansione delle organizzazioni criminali in quella provincia.
LA SCELTA DI VITERBO
E bisogna riconoscere – se davvero Attilio è stato ucciso, e se il piano per ucciderlo è stato studiato a tavolino – come la scelta di Viterbo sia stata geniale: intanto perché secondo certa vulgata “a Viterbo la mafia non esiste”, o al massimo esiste ma non ammazza come in Sicilia, quindi non è una mafia capace di commettere un delitto eccellente; e poi perché questo dà la possibilità alla Procura, al Gip e all’ex capo della Squadra mobile di sfoggiare il formidabile alibi della mancata preparazione nel fronteggiare un fenomeno nuovo come quello mafioso, di far passare le omissioni e le bugie come ingenui strafalcioni di una classe di magistrati e di poliziotti poco avvezza ad indagare sul crimine organizzato.
Per quanto finora la Procura, il Gip e l’ex capo della Mobile si siano mobilitati stoicamente (bisogna riconoscerlo!) per delegittimare la vittima, il tentativo si è rivelato un boomerang che ha finito per delegittimare loro stessi, che comunque stanno uscendo indenni da questa storia. Sarebbe bastato un intervento del Csm, del ministro di Grazia e giustizia (al quale pure il Movimento 5 Stelle, attraverso due interrogazioni, ha chiesto invano un’ispezione alla Procura della Repubblica di Viterbo), del ministro dell’Interno, dell’Associazione nazionale magistrati, della grande stampa, per far crollare il castello di incongruenze che – Provenzano o meno, mafia o meno, Barcellona o meno – ci allontana sempre più dalla verità. L’impressione è che per rimediare alle figuracce dei corpi intermedi, i corpi superiori usino il silenzio. Solo un’impressione, certo…
UNA TESI GROTTESCA
Se guardiamo i fatti senza pregiudizio, ci accorgiamo che la versione del medico drogato suicidatosi per “inoculazione volontaria di eroina”, in mancanza di prove, è semplicemente grottesca: troppo inverosimile la scena dei due buchi trovati nel braccio sinistro di una vittima mancina, per giunta con due siringhe poste a poca distanza, ma con i tappi salva ago inseriti, con la singolare assenza del cucchiaio sciogli eroina, dell’involucro di carta stagnola e del laccio emostatico. Così come appare strana l’assenza di certi indumenti della vittima e la contemporanea presenza di alcuni strumenti chirurgici (mai visti prima) su un tavolo. Troppo anomala quell’autopsia – eseguita senza la partecipazione di un perito della famiglia Manca – nella quale non vengono descritti i particolari più elementari come un setto nasale gonfio, le labbra tumefatte, i testicoli enormi e delle macchie emostatiche ai polsi e alle caviglie (come rilevato dal medico del 118) e, come dichiarato dagli zii della vittima a chi scrive, “la visibile presenza di materia nerastra sotto le unghie di Attilio”. Troppo grave quel mancato rilievo delle impronte digitali sulle siringhe, sulle quali, solo otto anni dopo, non sono state trovate tracce, né di Attilio né di altri (con una chiara mancanza della “prova regina” dell’auto inoculazione). Troppo insolito quell’esame tricologico che, attraverso l’analisi del capello della vittima, avrebbe dovuto stabilire assunzioni pregresse di droga, ma che, secondo l’avvocato Repici, non ha stabilito nulla perché il test – come l’autopsia – non solo è saltato fuori dopo otto anni, senza che la famiglia, a suo dire, ne fosse informata, ma è stato eseguito (anche questo) in assenza di un perito di parte, per di più senza un atto di notifica recapitato alla famiglia e al proprio legale, e con procedure tecniche anomale contestate dalla Commissione antimafia.
IL DECESSO PER “ANEURISMA”
Qualcuno dovrebbe spiegare perché, per ben due giorni, la polizia e la magistratura hanno parlato ufficialmente di “decesso per aneurisma”, omettendo alla famiglia la notizia del ritrovamento delle siringhe e dei due buchi al braccio sinistro. Una ennesima omissione che ha determinato, da un lato, un abbassamento del livello di attenzione dei familiari indotti a credere che la morte del congiunto fosse dovuta a “cause naturali”, al punto da non aver minimamente pensato di nominare un perito per assistere all’autopsia e agli esami collaterali (come quello tricologico e tossicologico); dall’altro a giustificare il sequestro del computer, delle ricette mediche e degli appunti della vittima da parte della Polizia, dove si sarebbe potuta trovare la chiave di questo giallo.
Qualcuno dovrebbe spiegare perché i Manca – dopo essere stati esclusi dall’autopsia e dall’esame tricologico – sono stati esclusi come parte civile nel processo “per droga” in corso a Viterbo, con una motivazione a dir poco surreale: la morte di Attilio non ha cagionato danno ai congiunti. I quali, adesso, non potranno dire la loro neanche in un dibattimento in cui la parola “mafia” è stata sostituita dalla parola “droga”. Una sottilissima strategia che ha visto impegnato in prima persona il sostituto Renzo Petroselli, titolare delle indagini, che, invece di stare dalla parte della vittima – come succede in casi del genere – ha imbastito un kafkiano processo alla vittima.
Adesso l’inchiesta – dopo le rivelazioni di Lo Verso – è nelle mani del capo della Direzione distrettuale antimafia di Roma, Giuseppe Pignatone. Che dovrà dirci se Attilio Manca è morto davvero per “inoculazione volontaria di eroina” o se è stato ucciso, ed eventualmente da chi e perché. Nell’uno o nell’altro caso l’opinione pubblica reclama prove serie e concrete.
Un quadro a tratti surreale.
Grazie per tutte le informazioni.