CATANIA, STORIA DI UN EDITORE COLLUSO. E LA STAMPA PERBENE?
Al di là delle ragioni tecniche che hanno portato i magistrati di Catania al sequestro di beni per complessivi 150 milioni di Euro dell’editore Mario Ciancio Sanfilippo, dalla conferenza stampa tenuta ieri dal procuratore Carmelo Zuccaro, dai sostituti procuratori Agata Santonocito e Antonino Fanara, e dagli ufficiali dei carabinieri che hanno indagato su circa quarant’anni di strapotere a Catania, emerge lo spaccato di una città dominata da un signore ritenuto “socialmente pericoloso”, con l’aggravante di essere in combutta coi mafiosi, e che per interi decenni ha usato il suo giornale e le sue televisioni per fare affari.
Il procuratore della Repubblica di Catania, Carmelo Zuccaro. Sopra: Mario Ciancio
Ovviamente sporchi. Non con imprenditori più o meno corrotti, ma con pericolosissimi boss come Giuseppe Calderone, Nitto Santapaola, Giuseppe e Aldo Ercolano, autori degli assassinii di Enrico Mattei (Calderone fu colui che all’aeroporto di Catania sabotò l’aereo dell’ex presidente dell’Eni – assieme ai servizi segreti americani e francesi e ad alcuni mafiosi iscritti alla massoneria – che si sarebbe andato a schiantare nelle colline di Bascapè vicino Milano), del giornalista Giuseppe Fava (Santapaola è stato ritenuto il mandante ed Ercolano l’esecutore), di un paio di stragi di carabinieri (a San Gregorio di Catania e alla circonvallazione di Palermo) e del delitto dalla Chiesa (proprio allora Santapaola si diede alla latitanza).
Il boss Nitto Santapaola
ggi i magistrati catanesi hanno detto per la prima volta ciò che il giornale di Fava ha sempre detto, cioè che Ciancio è un colluso. Una verità risaputa ma anche dirompente per una città perbenista, indifferente, a volte serva come Catania, ma stavolta la sala stampa della Procura si è rivelata improvvisamente piccola.
Eppure per giornali e telegiornali nazionali il “caso Ciancio” continua ad essere un caso “catanese”, qualche breve nelle pagine interne e via… Del resto, c’è da scrivere ben altro.
Eppure lo “zio Mario”, come affettuosamente viene chiamato dai suoi giornalisti, è stato per diversi anni presidente della Fieg (Federazione italiana editori giornali), successore addirittura di una personalità come Luca Cordero di Montezemolo; pezzo importante, determinante, per gli equilibri del gruppo Espresso-Repubblica quando questo, molti anni orsono, stava per finire nelle mani di Berlusconi; gran cerimoniere di ministri, sottosegretari e governatori quando costoro si sono trovati in visita a Catania e come prima tappa hanno sempre scelto la redazione de La Sicilia, dove si trattenevano in simpatico colloquio con il padrone.
Al netto di queste “quisquilie” (11 pentiti che hanno parlato, 360 pagine di decreto di sequestro, 150 milioni di beni sottoposti a sequestro, 30 società e tanto altro), bisogna tener presente che col suo giornale, Ciancio ha tentato di depistare le coscienze di migliaia di lettori (in verità non solo le coscienze, secondo quanto è emerso in conferenza stampa) ogni volta in cui Santapaola è stato coinvolto in qualcosa di grosso.
Come quando un commando uccise il sindaco di Castelvetrano (Trapani) Vito Lipari e poche ore dopo (eravamo nel 1980 e a quel tempo Santapaola, fuori Catania, non lo conosceva nessuno, magistrati e Forze dell’ordine comprese), ad un posto di blocco istituito in quella zona, i carabinieri fermarono don Nitto assieme ad altri mafiosi di primissimo piano: “Allora La Sicilia – si afferma in conferenza stampa – minimizzò sulla statura criminale del boss: un contrabbandiere, scrisse. Per quel delitto Santapaola fu assolto, ma quel che colpisce è il tentativo di condizionare l’operato degli inquirenti”.
Il fondatore del giornale I Siciliani Giuseppe Fava, ucciso da Aldo Ercolano su mandato di Nitto Santapaola, entrambi amici e soci di affari di Mario Ciancio, secondo i magistrati
O come quella volta in cui Santapaola scrisse una lettera dalla latitanza e la Sicilia la pubblicò senza problemi. Ovviamente in prima pagina. O come quella volta in cui il giornale di Ciancio cercò di screditare il pentito Maurizio Avola quando costui fece il nome di Santapaola come mandante del delitto Fava.
O come quando un cronista de La Sicilia scrisse delle cose sgradite ad Ercolano e fu redarguito dall’editore davanti al boss che se ne andò soddisfatto.
Evidentemente per giornali e telegiornali nazionali la morte del presidente dell’Eni, la strage di San Gregorio e della circonvallazione di Palermo, i delitti dalla Chiesa e Fava, sono situazioni da ignorare o al massimo da relegare – come ha fatto Repubblica – nel recinto della provincia siciliana. Perché, che piaccia o no, è questo il contesto criminale che Ciancio ha coperto per tanti anni.
Eppure la descrizione del curriculum vitae dell’editore catanese fatta dai magistrati e dai carabinieri di Catania, in certi momenti è impressionante. I condizionamenti politici per la realizzazione di alcuni centri commerciali, e le tensioni sorte allorché, a un certo punto, l’editore entrò in conflitto con Aldo Ercolano quando i rispettivi ipermercati, vista la vicinanza, cominciarono a farsi la guerra, e allora intervenne l’ex governatore della Sicilia, Raffaele Lombardo, per mettere pace fra le parti. La linea editoriale imposta al giornale e alle emittenti per il controllo economico sulla città. La protezione goduta anche all’interno del Palazzo di giustizia da quando – negli anni Settanta – l’editore cominciò i suoi rapporti con i boss: prima con Calderone, poi con Santapaola.
Già, la protezione… Un argomento emerso durante la conferenza stampa attraverso una domanda: perché solo oggi si arriva a questo provvedimento? Con il procuratore Zuccaro (che occupa questa carica solo da un paio di anni) che dice di non voler parlare dei suoi predecessori, ma esprime il suo disagio nei confronti di chi (colleghi compresi), fino a qualche tempo fa, negava persino l’esistenza della mafia a Catania.
Ieri in Procura è emerso il quadro di una città alla quale, per tanti anni, sono state negate tante libertà. Di parola. Di impresa. Di una politica improntata al Bene comune. Una città che a un certo punto si è incattivita, perché quando a comandare è la mafia, il destino non può essere che questo. E il bello (anzi il brutto) è che la stampa perbene non se accorge. E poi dicono che di giornali se ne vendono sempre meno…
Luciano Mirone
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