Tanti, in questi giorni, gli appelli per salvare i posti di lavoro dei giornalisti e di tutti gli altri dipendenti del Gruppo Ciancio che lavorano presso il quotidiano La Sicilia e le emittenti televisive Antenna Sicilia e Telecolor, cui si associa questa testata, con la speranza che – dopo il sequestro e la confisca di 150 milioni di Euro operati dalla magistratura di Catania – tutto si risolva nel migliore dei modi per loro, per le loro famiglie, e per l’informazione democratica in questo Paese.
Detto questo, ci sia consentito di fare delle riflessioni su un argomento delicato e complesso come questo, sia perché coinvolge direttamente, professionalmente e umanamente, altri giornalisti che, pur operando nella stessa città, si sono sempre rifiutati di stare al “gioco”, sia perché non è facile trovare, in tutto il mondo, un editore che contemporaneamente fa affari con boss come Santapaola, Calderone ed Ercolano; copre i loro misfatti più efferati (stragi, omicidi, traffico di droga e tanto altro) attraverso il silenzio, la menzogna e le mezze verità; mantiene inalterato per decenni il monopolio dell’informazione in tre province della Sicilia orientale (Catania, Siracusa e Ragusa); coltiva ottimi rapporti con i vertici delle istituzioni (la politica, l’economia, l’editoria, il giornalismo, la magistratura, le Forze dell’ordine, ecc.), riceve spesso le visite ossequiose di costoro nel suo ufficio di viale Odorico da Pordenone, con tanto di foto pubblicata nel suo giornale.
L’altro giorno in conferenza stampa il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, gli altri due magistrati Agata Santonocito e Antonino Fanara e gli ufficiali del Ros che hanno indagato sull’editore catanese, hanno spiegato – magari con altre parole – che Ciancio è un colluso, e forse sono stati fin troppo generosi, a meno che qualcuno non ci spieghi per bene cos’è la “vera” mafia e chi è un “vero” mafioso.
Non bisogna aspettare la fine del processo per concorso esterno in associazione mafiosa (nel quale Ciancio è imputato), per dire che questo signore, a prescindere da una eventuale condanna o assoluzione, col suo atteggiamento ha contribuito in modo determinante al rafforzamento di Cosa nostra a Catania, pur al cospetto di stragi, omicidi eccellenti, delitti di ragazzini che una volta si permisero di scippare la borsetta alla madre di Santapaola.
I magistrati catanesi, in conferenza stampa, sono stati chiari: Ciancio è in rapporto coi boss fin dagli anni Settanta: da allora fa affari con loro. Dunque è da allora che i vertici della magistratura e delle Forze dell’ordine in servizio a Catania sanno e fanno finta di non sapere, così come quella parte corposa del giornalismo (catanese e non) che fa parte di quel sistema.
Il fatto incredibile è che – dopo l’assassinio di Calderone – il vero dominus della città (a parte Ciancio e i cavalieri) è stato per tanti anni proprio Santapaola in persona. Sembra incredibile, ma è così. Santapaola uccideva, ordinava delitti e al tempo stesso riceveva prefetti, questori, magistrati, sindaci, vertici dei carabinieri e della polizia alle inaugurazioni della sua concessionaria di automobili. Eppure, fino al 1982, aveva la fedina penale pulita, perché tutti – pur sapendo – contribuivano a mantenerla tale. Durante la latitanza è stato pure peggio: basta leggere le carte del processo Orsa maggiore per rimanere esterrefatti: Santapaola scortato dai carabinieri. Inaudito!
A sgamare il gioco, allora, furono in tanti, ma solo un giornalista, che nel Gruppo Ciancio lavorava, ebbe il coraggio di ribellarsi: Giuseppe Fava, cronista e capo cronista dell’Espresso Sera (il quotidiano del pomeriggio) fin dagli anni Cinquanta, quando ancora Catania e il suo editore non avevano subito la mutazione antropologica dei decenni successivi.
La città di Brancati, di Ercole Patti, di Martoglio era diventata improvvisamente la città di Santapaola. Per Fava fu un trauma. Non stette al gioco e fu licenziato. Meglio Santapaola – che avrebbe garantito soldi – che uno dei più grandi giornalisti d’Europa, che avrebbe dato lustro e fatto vendere copie.
Stesso film un paio d’anni dopo, quando Fava andò a dirigere Il Giornale del Sud, finanziato dal cavaliere Graci: cacciato dopo alcuni mesi per essersi permesso di trasgredire le leggi dei potenti.
Possibile – si chiede qualcuno – che un grande intellettuale come Fava avesse scelto di lavorare in quegli ambienti? Forse la domanda andrebbe posta così: è possibile, in mancanza di editori onesti, decidere di stare alle dipendenze di un Graci? Possibile! Ma a condizione di rimanere libero. Fu quella la condizione imprescindibile che Fava impose al Giornale del Sud con un contratto che lo avrebbe blindato giuridicamente da ogni forma di condizionamento.
Un passaggio che dimostra come bene e male, nel nostro Paese (soprattutto in Sicilia), spesso coesistono anche sotto lo stesso tetto, in una eterna lotta impari che porta anche alla morte: Aldo Moro e Giulio Andreotti, Piersanti Mattarella e Salvo Lima, Peppino Impastato e suo padre, Giuseppe Fava e Mario Ciancio e Gaetano Graci. Non sempre la verità è bianca o nera: a volte esistono delle sfumature che vanno colte in controluce per comprendere l’essenza profonda della verità.
Ma forse le parole di un grande politologo come Franco Cazzola (che chi scrive ha intervistato diversi anni fa) danno il senso di tutto ciò: “Quando Fava andò a dirigere Il Giornale del Sud era consapevole del mare sporco che gli stava attorno, eppure volle portare avanti quella esperienza, convinto che solo l’informazione libera e la cultura avrebbero affrancato molti catanesi dalla causa della loro disperazione: la corruzione della politica e la collusione con la mafia”.
Nel giorno del commiato dai lettori del Giornale del Sud, Fava scrisse un pezzo memorabile: “Io ho un concetto etico del giornalismo. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalità, impone ai politici il buon governo. Un giornalista incapace, per vigliaccheria o per calcolo, si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni e le violenze che non è stato mai capace di combattere”.
Poco tempo dopo Fava fondò una delle riviste più straordinarie della storia del giornalismo italiano: I Siciliani. Sappiamo come finì.
Raccontiamo questa storia per ribadire che i giornalisti de La Sicilia, di Antenna Sicilia e di Telecolor vanno salvaguardati, ma allo stesso tempo ci chiediamo cosa hanno fatto, loro, assieme ad altri giornalisti che lavorano nelle più grandi testate italiane, e ai vertici delle istituzioni, per ribellarsi mentre quel 5 gennaio 1984 echeggiavano cinque colpi di pistola sparati da Aldo Ercolano e ordinati da Nitto Santapaola contro Giuseppe Fava? Cosa hanno fatto quando la Sicilia – attraverso la penna di Tony Zermo – tentò di depistare le indagini? Cosa hanno fatto quando I Siciliani hanno chiuso? Cosa hanno fatto per evitare che i giornalisti in dissenso venissero emarginati?
Cosa hanno fatto quando i colleghi di Telecolor sono stati licenziati? Cosa hanno fatto quando al Consiglio dell’Ordine qualcuno pose il veto di assegnare il premio all’autore del libro sulla storia dei giornalisti uccisi in Sicilia e sulle magagne inconfessabili di alcuni editori dell’Isola? Cosa hanno fatto per far conoscere all’opinione pubblica chi era tal Ardizzone, editore del Giornale di Sicilia, e qual era l’ambiente che isolò il cronista di quella testata, Mario Francese, assassinato dai Corleonesi negli anni Settanta? Cosa hanno fatto per raccontare i depistaggi successivi all’assassinio di Mauro Rostagno (di cui tutti, proprio “tutti”, oggi celebrano il trentesimo anniversario dell’assassinio)? Cosa hanno fatto per raccontare come è morto Attilio Manca? Cosa hanno fatto quando all’interno del Gruppo Ciancio c’è stato chi ha tentato di infangare perfino un proprio cronista, il giornalista di Barcellona Pozzo di Gotto, Beppe Alfano, “reo” di avere scoperto il covo di Santapaola in quella città? Cosa hanno fatto quando la Repubblica decise di non aprire la redazione a Catania per non disturbare certi piani? E cosa hanno fatto per far conoscere all’opinione pubblica i motivi per i quali il giornale di De Benedetti non doveva uscire con le pagine regionali di Repubblica (redatte a Palermo ma stampate a Catania) nelle province di Catania, di Ragusa e di Siracusa?
Ognuno può rispondere con il classico “tengo famiglia”. E lo capiamo. E però facciamo sommessamente notare che ci sono stati giornalisti che per essersi messi “contro”, una famiglia manco se la sono fatta, o se la se la sono fatta dopo tanti anni, o magari sono dovuti scappare dalla loro città.
Ora, in nome di tante famiglie, diciamo che tutti questi lavoratori devono continuare a lavorare. Però smettiamola di dire che i giornalisti sono tutti uguali, e magari cerchiamo di capire il significato più profondo di una parola bellissima: onestà. E magari associamola alla parola “intellettuale”. Cominciamo a fare i distinguo. Perché ci sono giornalisti e Giornalisti. A Catania come altrove.
Luciano Mirone
Di meglio non si poteva scrivere! Complimenti Luciano.
In queste ultime ore a Catania i distinguo si sono alternati ai silenzi. La confisca di 150 milioni di patrimonio a Mario Ciancio Sanfilippo, soprattutto la confisca con sequestro del quotidiano La Sicilia, e delle reti televisive controllate dall’ex presidente della Fieg, – caso unico, sino ad ora, di organi di informazioni confiscati perché, secondo l’accusa mossa dalla DDA e condivisa dal giudice di primo grado, la linea politica di quel giornale era funzionale a garantire gli interessi di Cosa Nostra – in un altro luogo, con un altro editore avrebbe dovuto avere la forza dirompente di uno tsunami. A Catania si tace e, nei rarissimi casi nei quali qualcuno apre bocca lo fa per apporre distinguo, per preoccuparsi (https://web.whatsapp.com/ ) soprattutto dei posti di lavoro che, secondo un consumato luogo comune, sarebbero sempre a rischio non appena al padrone mafioso si sostituisce un commissari espressione dello Stato. Gioco vecchio e consumato, che ha visto il sindaco di Catania, tanto preoccupato del futuro de La Sicilia da scordarsi di dire una parola sul fatto che una Procura e poi un giudice, dopo ampia e approfondita valutazione, sostengono che i principali organi di stampa della sua città venivano scritti e stampati per favorire la mafia. Attentissimo alla sicurezza il signor sindaco Salvatore Pogliese, zelante al punto da emettere draconiane ordinanze contro gli homeless, appare distretto e confuso quando si tratta difatti di mafia. Sulla stessa lunghezza d’onda il suo predecessore Enzo Bianco – le cui intercettazioni con Ciancio (https://catania.livesicilia.it/…/i-verbali-di-mario-cianci…/ ) finite nel processo rappresentano un compendio della sudditanza della politica rispetto agli interessi milionari di Ciancio e dei suoi dante causa – che non trova di meglio da fare che pubblicare un post su FB denunciando il degrado delle siepi e delle aiuole cittadine. Come dire “il problema della Sicilia è ..il traffico”.
Tace Confindustria (si quella della legalità) che continua a tenere Ciancio tra i suoi associati. Parla invece l’Ordine dei giornalisti siciliano, quello che aveva cacciato per morosità Riccardo Orioles, riammettendolo solo dopo che si era scatenato un putiferio nazionale, protagonista di una singolare crisi di identità. Da un lato si costituisce parte civile nel processo contro Ciancio, dall’altro, nonostante il rinvio a giudizio per un reato infamante come il concorso esterno in associazione mafiosa e adesso la confisca dei beni, non ha sentito il dovere, etico morale, la dignità si potrebbe dire, di cacciare Ciancio dall’Ordine, o almeno di sospendenderlo dall’albo. Ma Ordine e sindacato sono intervenuti subito per preoccuparsi anch’essi del futuro lavorativo dei giornalisti de La Sicilia.
Tale preoccupazione potrebbe essere legittima se la confisca avesse messo a rischio i posti di lavoro, ma non è così. Le aziende di Ciancio erano già da tempo messe male e non certo a causa dei giudici. Questa solidarietà sembra invece un tentativo di assolvere chi in quel giornale ha servito fedelmente i voleri di Ciancio. Perché un giornale non lo fa solo il direttore, non lo fa solo il capocronista. Lo fanno soprattutto i redattori. Una truppa che per cinque decenni è stata muta, obbedendo con zelo, spesso anticipando i desiderata, ad una linea editoriale che – lo dicono i magistrati – era funzionale agli interessi di cosa nostra catanese. Un giornale che è stata un’accademia del silenzio, delle mistificazione. Dove si praticava una narrazione che era solo funzionale a “mettere la sordina” – uso le parole del Procuratore Zuccaro – a qualunque cosa potesse disturbare gli interessi di Ciancio e non garantisse un racconto semplificato e innocuo della presenza mafiosa a Catania. Si scrivevano decine di pezzi sulla mafia militare, sui “canazzi di bancata”. Una cronaca nera spicciola, fatta del lugubre conto delle “ammazzatine”. Ma guai a raccontare altro. Per decenni Catania è stata la città dove la mafia non esisteva, nella quale il signor Bendetto Santapaola era solo un rispettabile commerciante di automobili e dove prefetti, sindaci e questori facevano la fila per brindare con lui. Quella Catania aveva il suo giornale ed era il giornale di Ciancio scritto dai giornalisti di Ciancio. Era il giornale che indicava piste improbabili per l’assassinio di Giuseppe Fava. Il quotidiano che pubblicava nome, cognome, indirizzo catanese della famiglia e carcere di detenzione del pentito che aveva annunciato di far rivelazioni sull’assassinio di Fava, che pubblicava una pagina di bugie per screditare il pentito Maurizio Avola che manderà finalmente all’ergastolo gli assassini di Pippo Fava. Ecco sono solo alcuni esempi, se ne potrebbero fare altri e altri ancora. Mi chiedo ma tutto questo Ciancio poteva farlo da solo? Quale resistenza si è avuta in quel giornale nei cinquantuno anni del regime di Mario Ciancio Sanfilippo? La risposta la danno gli stessi giornalisti de La Sicilia che riuniti in assemblea l’indomani della confisca del loro giornale e poche ore dopo le dimissimi di Ciancio, con felice penna stilano e approvano un comunicato (https://www.lasicilia.it/…/l-assemblea-dei-giornalisti-de-l… ) nel quale dicono testualmente: “Al direttore Mario Ciancio Sanfilippo, che nei decenni ha portato avanti questa testata con orgoglio, con passione e, soprattutto, con grande umanità, va il nostro affettuoso ringraziamento, certi che sarà in grado di chiarire la sua posizione giudiziaria”.
A questa gente si dovrebbe dare solidarietà?
Dimenticavo tenevano famiglia anche i sei giornalisti cacciati, nel più totale e colpevole silenzio della città, da Telecolor nell’estate del 2006. Ma alle nostre famiglie abbiamo spiegato che il pane non si baratta con la verità e la dignità.